Questa mattina, alle ore 9,25, è deceduto il Diacono permanente Vincenzo Bernardini, 52 anni d’età, Direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Famiglia e Collaboratore pastorale presso la Parrocchia di San Luca in Latina. Il decesso è avvenuto presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Trigoria (Roma), dove era ricoverato da alcune settimane a seguito di una malattia.
Il rito delle esequie, presieduto dal vescovo Mariano Crociata, sarà celebrato sabato 5 ottobre, alle ore 15,00, presso la chiesa parrocchiale di San Luca, a Latina.
Il Diacono Vincenzo Bernardini era nato il 12 ottobre del 1971 a Latina, dove risiedeva con la sua famiglia. Nel Capoluogo pontino viveva con la moglie Roberta Romito e i loro sette figli, impiegato presso un’azienda farmaceutica del territorio. Sempre con la moglie da tempo seguiva il cammino della Comunità Neocatecumenale. Negli anni aveva maturato la vocazione al Diaconato e intrapreso il relativo percorso di formazione che lo ha portato il 26 settembre 2020 all’ordinazione diaconale, venendo poi assegnato alla Parrocchia di San Luca come Collaboratore Pastorale. Dallo scorso anno, il vescovo Mariano Crociata aveva affidato a Vincenzo Bernardini e alla moglie Roberta Romito l’incarico per entrambi di Direttore dell’Ufficio per la Pastorale della Famiglia.
Alla moglie Roberta e ai figli sono giunti il cordoglio della Curia vescovile di Latina.
AGGIORNAMENTO: Omelia per i funerali del diacono Vincenzo Bernardini:
OMELIA
Funerali del diacono Vincenzo Bernardini
Latina, parrocchia San Luca, 5 ottobre 2024
+ Mariano Crociata
Difficile descrivere lo stato d’animo che domina in noi in questo momento. È sta-to tutto così improvviso, repentino, accelerato quasi, che facciamo fatica a rendercene veramente conto. Avremo bisogno di tempo per elaborarne la coscienza prima che lo stesso lutto. Siamo addolorati, costernati, ma avvertiamo una sorta di serenità, non so se posso dire di pace. Forse è la persona stessa di Vincenzo che ci trasmette tutto questo. E anche la famiglia, alla quale ci sentiamo vicini nell’affetto e nella fede, per come ha vissuto questo tempo quasi sospeso eppure estremamente esigente, concreto e concitato, ci invita a non lasciarci travolgere da un senso del dolore buio e disperato. Sento non solo di dire la nostra partecipazione, ma anche in qualche modo di ringraziare per la loro testimonianza Roberta, e poi i figli: Luca, Chiara, Gloria, Andrea, Marta, Giacomo e Davide. Il nostro pensiero va anche ai genitori di Vincenzo, che ci seguono da remoto.
Non ce lo possiamo nascondere: c’è un’ingiustizia insanabile nel vedere morire chi abbiamo generato alla vita, lo sentiamo qualcosa di contrario alla nostra natura. E altrettanto ingiusto essere privati di colui che ci ha generati e che dovrebbe accompagnare la nostra crescita. Sentendo e dicendo questo, non intendiamo certo offendere il nostro Creatore, poiché in qualche modo se di ribellione si tratta, allora Egli si ribella insieme a noi, poiché ha accettato, anzi ha scelto di consegna-re il proprio Figlio ai suoi uccisori perché fosse manifesto e pieno il dono d’amore che siamo noi quando veniamo al mondo e quando veniamo alla fede.
Mi ha sempre colpito Vincenzo, permettetemi di dirlo in semplicità e verità. E questo sino alla fine. Quasi suscitava in me un senso di soggezione, di timore reverenziale, se posso dir così. Un uomo vero, delicato e forte, serio e severo, sempre; straordinariamente misurato nelle parole, ma attento, pieno di rispetto e discrezione, preciso, senza sbavature ma anche senza reticenze. Parlava quando doveva e poteva farlo, manifestando allora insieme a una grande serenità d’animo e un grande equilibrio, una grande tensione interiore verso il bene, il dovere, verso mete sempre alte e più alte. Si sarebbe detto imperturbabile anche se poi era possibile avvertire il lavorio interiore il cui frutto era quella straordinaria pacatezza e misura che lo contraddistingueva, e la bontà e lieve ironia che tende-va a dissimulare. Ora che se n’è andato, ne percepisco tutta la preziosità, l’unicità, l’insostituibilità: per la moglie e i figli certo, ma anche per noi, per la nostra Chiesa, per il cammino neocatecumenale che ha contribuito a plasmarlo e per il diaconato che lo ha conformato a quel Cristo servo che ha amato, seguito e imitato in modo esemplare, per il servizio alla pastorale familiare che insieme a Roberta aveva av-viato con grande amore e dedizione.
Il giorno prima che entrasse in agonia – e faceva già fatica a respirare e a parlare – mi ha detto con un soffio di voce: questa è la croce. Come a dire che tutte le nostre parole sulla croce sono spesso molto lontane dalla realtà che essa è per chi la porta nel momento in cui la porta come l’ha portata Gesù. C’erano nelle sue paro-le, insieme alla lotta oscura della sofferenza sia pure lenita, una determinazione e una forza straordinarie, come quelle di chi sa che in quel momento prendeva senso tutto ciò per cui era vissuto e tutto ciò che aveva fatto; e c’era non meno la certezza che proprio in quel compimento si realizzava per lui ciò che Gesù stesso aveva vissuto, e ancora la certezza dell’unione con Gesù crocifisso nella ferma fi-ducia che presto lo avrebbe incontrato nella luce della gloria e della risurrezione. Tutto questo mi hai confermato anche tu, Roberta, condividendo con me passo passo la via di croce e di luce di questi giorni.
Questa morte, più di ogni altra (come quella di don Mario, il cui primo anniversario cade proprio oggi), ci lascia un messaggio, anzi l’invito a guardare alto e lontano. Il nostro problema non è che ci occupiamo con impegno e passione di tutto ciò richiede la nostra vita terrena. Il nostro problema che è che ci occupiamo e preoccupiamo solo di essa, come se tutto finisse qui e non ci fosse altro. E invece c’è dell’altro, e molto altro. Bella questa prima lettura in un solo versetto: «d’ora in poi, beati i morti che muoiono nel Signore. Sì – dice lo Spirito -, essi riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono». Ecco: le nostre fatiche e le no-stre opere non sono inutili, non si disperdono al vento se noi impariamo a “morire nel Signore”. Sì, perché questo si impara. E si impara nella fede, nella preghiera, nella carità che guarda oltre tutte le meschinità di questo mondo, soprattutto nel-la speranza certa che il Signore ci aspetta a braccia aperte e ci accompagna in tutti i momenti perché ogni cosa diventi preziosa definitivamente ai suoi occhi e nel suo cuore. Questa che è la beatitudine del morire nel Signore è stata anche beatitudine per Vincenzo.
«D’ora in poi», dice l’Apocalisse, cioè dal momento della morte e risurrezione del Signore. E noi siamo nel tempo cominciato da quell’ora. È questa la coscienza con cui vivere. Lo ha fatto Vincenzo lungo la sua vita; lo ha fatto nella sua ora suprema, e lo testimonia il clima di preghiera che l’ha visto partecipe e lo ha accompagnato fino all’ultimo respiro. Veramente è morto nel Signore.
E ora è nella sua casa. Quella casa che anch’egli ha costruito non sulla sabbia, ma sulla roccia, la roccia della sua fede, della Chiesa, la roccia che è il Signore, pie-tra angolare di ogni umana costruzione che voglia reggere e resistere a tutte le intemperia, perfino a quella della morte. La sua vita è stata casa per la famiglia, la moglie, i figli, per la comunità ecclesiale. E ora ci aiuta con la sua preghiera a tenere su la casa della fede, della sua famiglia e di tutti, da quel regno nel quale non avremo più bisogno di credere, perché vedremo Dio così come Egli è, e così vivere sempre insieme con Lui e con quanti abbiamo e ci hanno amato.