Omelia per la prima visita alla comunità ecclesiale di Terracina

Terracina, concattedrale di San Cesareo, 12 gennaio 2014
16-06-2014

Questa celebrazione è come un prolungamento del mio ingresso in diocesi attraverso l’incontro con una comunità cittadina e foraniale, quella di Terracina, che è la più antica sede cristiana del nostro territorio. Terracina, infatti, al di là dei dati storici documentabili, conserva – insieme ad altri siti – memoria di tracce e legami con gli apostoli. Con questa consapevolezza vi porto il mio saluto cordiale, unito alla gratitudine per la vostra calorosa accoglienza.

La domanda che accompagna questa mia prima visita scaturisce proprio dal senso di una tale memoria per la vita della nostra comunità diocesana. E la risposta che trovo è molto semplice. Infatti la nostra identità e la nostra missione di Chiesa, in questo tempo e in questo territorio, si definiscono comunque a partire dalle nostre radici. È inscritta nella perenne vitalità della Chiesa l’esigenza di un incessante ritorno alle fonti, come garanzia di autenticità e di coerenza con la vocazione originaria. Tale è stata una delle intenzioni di fondo che ha animato il Concilio Vaticano II; tale è stata sempre la motivazione da cui sono nati tutti i movimenti di riforma nel corso della storia della Chiesa: tornare alle sorgenti della fede e della vita cristiana in Gesù e nella comunità apostolica. Perciò la risposta che affiora è che questa comunità di Terracina ha il compito di ricordare e tenere viva nella nostra diocesi la coscienza delle nostre radici apostoliche ed ‘evangeliche’. Non dunque motivo di retorica per le più o meno nobili ascendenze del passato, bensì responsabilità per il dovere di testimonianza a favore di una Chiesa fedele a se stessa, secondo il modello che viene a noi da Cristo Gesù attraverso la mediazione degli apostoli.

In realtà si tratta di un compito che poi tocca tutti: me per primo, che ho avuto affidato proprio il ministero degli apostoli attraverso la successione episcopale; e ciascuno di voi, di questa comunità e di tutte le comunità. Il vanto per il probabile passaggio attraverso queste terre degli apostoli Pietro e Paolo si trasformi nella coscienza umile e scrupolosa di coltivare la loro memoria, non semplicemente affidata alle tracce nei monumenti e nella devozione, ma consegnata a una fede ardente e a una vita cristiana coerente, in cui si rinnovi il senso della presenza di Cristo, come è avvenuto ogni volta che la sua imitazione ne ha suscitato l’eco fedele per la santità dei suoi discepoli in ogni tempo e sotto ogni cielo. Questo, del resto, è stato sempre ben inteso da tutti coloro che hanno seguito Gesù votando a lui tutta la loro vita, a volte fino al martirio, come testimonia la figura di san Cesareo, venerato in questa chiesa concattedrale.

Tornare alle radici della nostra fede è, dunque, il nostro compito permanente, per vivere il presente e avventurarci nel futuro. La festa del battesimo di Gesù che oggi celebriamo è una di queste radici, come lo è per ciascuno di noi il nostro battesimo. Ma mentre quello che Gesù riceve è il battesimo di Giovanni, quello che riceviamo noi è il battesimo cristiano, inserimento nel mistero pasquale di Cristo, nella sua morte e nella sua risurrezione, per una rigenerazione alla figliolanza divina. E in verità il nesso tra i due è molto stretto.

Quello ricevuto da Giovanni è un pubblico riconoscimento del proprio bisogno di perdono e di conversione; quello celebrato in Cristo lo comunica, il perdono, e rende efficace il cammino di conversione. Sottomettendosi al battesimo di Giovanni, Gesù non ha peccati propri da confessare, ma dichiara con un gesto paradossale di farsi carico dei peccati di tutti. È un nuovo inizio per Gesù: l’avvio della sua missione, maturata lungo tanti anni, riconosciuta e accolta come volontà del Padre. Nel battesimo di Gesù c’è in nucleo la sua Pasqua, e c’è la nostra salvezza attraverso un’acqua nuova, quella del fonte battesimale. Significativo vedere questi due uomini, celibi, obbedirsi a vicenda sottomettendosi reciprocamente: l’uno non vuole accogliere l’altro, l’altro gli chiede di adempiere la giustizia di Dio, alla fine l’uno e l’altro si sottomettono all’unica volontà divina, accettando la via della Pasqua come cammino di salvezza per tutti scelto da Dio. Il compiacimento del Padre è il sigillo della consacrazione di Gesù alla sua missione, lo svelamento della sua personale figliolanza divina in una adesione indefettibile al misterioso disegno del Padre. Tutto ora deve servire a portarlo a compimento: dall’obbedienza di Giovanni, attraverso quella di Gesù, fino alla nostra obbedienza, così da diventare per grazia e per impegno di esistenza anche noi figli nel Figlio.

Un triplice compito affidano a noi questa celebrazione e la festa di oggi. Innanzitutto il dovere di misurare sulle nostre radici apostoliche ed evangeliche le nostre consuetudini religiose e la nostra organizzazione pastorale. Dobbiamo avere sguardo attento per vigilare sulle tentazioni dell’abitudine accomodante, che lascia consolidare incrostazioni dall’apparenza religiosa ma dal contenuto sempre più svuotato di sostanza evangelica. Le nostre tradizioni devono passare al vaglio di una fede pura e purificante, che è poi sempre la fede crocifissa, quella autenticata dalla Pasqua di Gesù.

In secondo luogo, abbiamo bisogno di riscoprire il nostro battesimo e la genuinità della nostra fede e dell’appartenenza ecclesiale. Nessuno di noi, presumo, è stato battezzato da adulto; tutti lo siamo stati da bambini. Ora i bambini ricevono la grazia della conversione ma non possono ancora metterla in atto; solo gli adulti si possono lasciare convertire, perché solo un adulto ha la consapevolezza e la libertà per farlo. Ritornando alle radici del nostro battesimo, ognuno di noi deve chiedersi se si è compiuto – in una circostanza singolare o nel corso di un lungo periodo – il passaggio a una fede matura, la scelta di fede che consegue alla conversione grazie all’incontro personale con Cristo. Anche se siamo stati battezzati da bambini, non siamo nati cristiani, ma lo siamo diventati e, forse, lo dobbiamo ancora o sempre di nuovo diventare.

Infine, non possiamo omettere la ricaduta esistenziale e l’efficacia storica del nostro battesimo e del ritorno alle radici della nostra fede. Il nostro credere non può rimanere estraneo alla responsabilità sociale e civile, alla coerenza etica e culturale, all’impegno corrispondente alla nostra coscienza cristiana nello spazio pubblico della vita politica e istituzionale. La prossima giornata, dedicata dalla Chiesa alla preghiera e alla solidarietà per i migranti, ci ricorda insieme l’esigenza della nostra partecipazione al dramma di chi lascia la propria casa e la propria patria, da qui per altrove o da lontano per trovare accoglienza in queste nostre terre; ma ci ricorda anche la nostra identità non stanziale, oserei dire nomadica: noi credenti siamo per struttura interiore migranti, migranti nello spirito, sempre alla ricerca di Dio e di una condizione migliore, non solo nella dimensione delle condizioni materiali di vita, ma soprattutto nella prospettiva di una relazione sempre più piena con Dio e di una fraternità sempre più grande con il prossimo. Migranti nello spirito verso una vita più piena, come è stata quella di Gesù, instancabile pellegrino per le strade della Palestina; e come è stata quella degli apostoli, passati da qui ma in cammino per altrove, a ricordarci che se i nostri piedi possono anche calpestare per lungo tempo le stesse strade, il nostro cuore non può insediarsi una volte per tutte, ma è sempre in ricerca, in pellegrinaggio verso l’eterno, in un nomadismo spirituale che non perde mai il suo punto fermo, la sua stella fissa, nell’unico Signore nostro Cristo Gesù.