Omelia per la Messa del Crisma

Latina, cattedrale di San Marco, 16 aprile 2014
16-06-2014

Il Concilio Vaticano II si è fatto espressione di una ininterrotta coscienza di fede quando ha definito la liturgia, e in particolare l’Eucaristia, «il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia» (Sacrosanctum concilium 10). Domani sera ne ripeteremo l’esperienza con la celebrazione nella memoria della cena del Signore. Con essa presenta un profondo legame questa Messa crismale, perché unisce alla memoria della istituzione dell’Eucaristia quella del ministero sacerdotale, evidenziata questa sera dalla rinnovazione delle promesse sacerdotali.

In questa Messa per la benedizione degli oli e del crisma risalta una dimen-sione specifica della capacità generativa della liturgia della Chiesa, poiché assistiamo a una sorta di plastica visibilizzazione della proclamazione profetica e messianica di Gesù: «Lo Spirito del Signore è su di me». La carne del Messia è carne unta di Spirito Santo, impregnata di forza divina vivificante. A partire da Lui l’umanità può diventare spazio della presenza di Dio, spazio accogliente e irradiante per Dio. Come luogo umano e storico della presenza personale di Dio, Gesù si fa sacramento della dedizione divina che salva.

Passando nell’oggi della Chiesa, la capacità di infondere vita divina e di trasformare la condizione umana si trasferisce alla Parola e ai segni sacramentali di cui la comunità dei credenti viene dotata per consentire a chiunque di condurre l’esistenza al cospetto di Dio come via di santificazione. Risulta sempre impressionante la capacità della fede cristiana di assumere ed elevare l’umano, così com’è, nella sua fugacità e fragilità, e farlo diventare tenda di Dio e tempio della sua gloria.

Celebrare ogni anno la benedizione degli oli dice tante cose al nostro bisogno di speranza: innanzitutto la fedeltà di Dio e la sua volontà di mantenere generosamente viva la sorgente della grazia sacramentale; poi l’unità e la fecondità della Chiesa che, attorno al vescovo quale successore degli apostoli, garantisce a tutti i fedeli l’accesso alla fonte della misericordia e della comunione; infine le forme che assicurano la continuità del dono e la circolazione della grazia, e cioè la Parola e i sacramenti; attraverso di essi non c’è situazione umana o passaggio dell’esistenza che non possa essere raggiunto da Dio e toccato dalla sua grazia sanante ed elevante. Gli oli e il crisma parlano il linguaggio dell’esistenza carnale che si lascia plasmare dal divino in quei passaggi fondamentali che sono: l’apertura alla fede e la nascita alla figliolanza divina con il battesimo, l’adesione alla chiamata di Dio per la missione consegnata alla responsabilità della vita credente nel sacramento della cresima, il sostegno e l’accompagnamento nei momenti di fragilità e nel transito ultimo verso la definitiva comunione con Dio nell’unzione degli infermi. Il crisma in particolare realizza la condizione fondamentale per la vita sacramentale attraverso il sacramento dell’ordine, che nel collegio dei presbiteri, con l’ausilio dei diaconi, sacramentalmente uniti al vescovo, assicura all’esistenza credente il sostegno della Parola e della grazia, nella predicazione e nell’ascolto orante, nella celebrazione della misericordia e delle nozze, soprattutto nel culto perfetto del rendimento di grazie eucaristico, affinché ciascuno possa camminare con Dio e verso di Lui, e concorrere all’edificazione del corpo di Cristo.

Il ministero ordinato è uno snodo fondamentale per la vita della Chiesa, per il compito di mediazione che esso svolge nella diffusione della Parola e nei sacramenti. Anche per questo la liturgia di questa Messa inserisce nel suo svolgimento la rinnovazione delle promesse sacerdotali. Due ragioni sostengono questa scelta: la prima è esprimere la centralità del ministero presbiterale nella vita della Chiesa, la seconda è il richiamo rivolto direttamente ai presbiteri e, insieme a essi, a tutti i fedeli, i quali non a caso sono invitati a pregare per i presbiteri e per il vescovo; e il richiamo consiste nell’invito a ricordare che l’effusione sovrabbondante della grazia divina non giunge a effetto senza l’adesione convinta e la risposta fedele di chi riceve il dono. L’accoglienza della chiamata e della grazia divina richiede pronta risposta, rinnovata adesione, fervore costante. In questa Quaresima, e in particolare in questi giorni santi, andiamo imparando sempre di nuovo che il male non si vince e la grazia non cresce in noi senza preghiera assidua, senza il digiuno e una disciplina rigorosa. Non siamo noi a produrre la nostra trasformazione, ma lo Spirito, il quale non unge e non impregna le nostre persone senza lo sforzo sincero della nostra disponibilità e della nostra apertura. Ci vuole uno sforzo; ci vuole un impegno; ci vuole una promessa da mantenere e rinnovare.

Così la Chiesa ci appare in questa liturgia, fortemente caratterizzata in senso spirituale e sacerdotale, come un organismo vivente reso vigoroso e ordinato dalla forza dello Spirito. Da quanto Egli opera in mezzo a noi deve nascere continuamente la volontà e l’iniziativa di relazioni personali improntate all’accoglienza reciproca e alla collaborazione generosa in ogni ambito e condizione di vita ecclesiale e sociale.

Assistiamo a fenomeni preoccupanti che vedono:

– minacciati i rapporti sociali e la dignità delle persone a causa dell’egoismo spietato che si impone in tutti gli strati sociali;

– sempre più oscurata la figura della famiglia e della sua missione insostituibile nell’accoglienza della vita e nell’educazione delle nuove generazioni;

– spesso abbandonati a se stessi ragazzi e giovani, privati di prospettive di lavoro e di protagonismo sociale a motivo di una crisi di cui non si riesce a venire a capo e che non scuote veramente come dovrebbe la coscienza collettiva, rendendo sempre più chiuso e ristretto l’orizzonte della speranza.

Non vogliamo scoraggiarci; al contrario, abbiamo motivo di veder risorgere una nuova possibilità di futuro, poiché riponiamo la nostra speranza in Cristo e in quella unzione che egli ha esteso anche a noi con la sua morte e la sua risurrezione. Che cosa possiamo e dobbiamo fare per rispondere alla chiamata del Signore come popolo sacerdotale mandato a vivere questo tempo, drammatico ma anche ricco di grazia?

Il compito che ci attende deve essere rivolto a costruire e rafforzare comunità sempre più unite in comunione al proprio interno e tutte insieme con il vescovo. Non è difficile raccogliere motivi di insoddisfazione, di scontento, di delusione tra di noi; o anche rilevare obiettivi elementi di inadeguatezza e di inadempienza. Non dobbiamo permettere che questo prenda il sopravvento e diventi motivo di scoraggiamento e di defezione. Il Signore ci ha dato gli uni agli altri: questo vescovo, questi sacerdoti, questi religiosi, questi fedeli laici; e se il Signore ci ha donato a vicenda vuol dire che Egli è in grado di fare di noi quella Chiesa che sogna e che è il solo in grado di creare. Accogliamoci allora gli uni gli altri e prestiamoci ogni generosa collaborazione. Cominciamo dalle nostre comunità così come sono, cercando di fare del nostro meglio ma anche di fare spazio a tutti, senza che venga stravolto l’ordine della comunione attorno al ministero ordinato.

Proprio questo suggerisce di improntare il nostro impegno a una triplice apertura. Una prima forma di apertura è quella interna alle nostre comunità, nelle quali nessuno deve diventare impedimento all’ingresso e alla partecipazione di altri e a tutti deve essere consentito – senza che diventi imposizione e arroganza da parte di alcuno – di portare il proprio contributo di preghiera, di presenza, di azione.

La seconda forma di apertura è quella missionaria. Ci si deve chiedere come le nostre comunità diventano luoghi attraenti di vita cristiana, capaci di richiamo e curiosità per chi ha sensibilità verso quanto è umanamente autentico e significativo come espressione di fede. L’assenza di ansia missionaria deve essere guardata con sospetto. La stanchezza, la rassegnazione, l’abitudine sono motivi di allarme circa la qualità e la vitalità della fede delle nostre comunità.

Infine l’apertura che il Signore ci chiede riguarda i poveri, primi destinatari dell’iniziativa messianica dell’Unto del Signore. È un’apertura che nasce non da progetti socialmente utili, ma da senso di umanità e di fraternità, da senso di fede che intravede soprattutto nell’altro bisognoso il volto del Cristo Signore. Troppo abbiamo delegato a settori specifici di competenza la fraternità e la solidarietà. Ci vuole senza dubbio competenza anche nella solidarietà: bisogna fare bene il bene, bisogna saperlo fare. Ma l’apertura del cuore e lo slancio dell’iniziativa è alla portata di tutti nelle nostre comunità, sapendo che non è innanzitutto questione di distribuzione di beni e denari, ma di accoglienza e promozione delle persone, di inclusione nei circuiti virtuosi di una socialità umanamente, prima che economicamente, ricca.

Il Signore, donandoci il suo Spirito, apre dinanzi a noi squarci di speranza per fare progetti e per crescere come singoli e come Chiesa. Non lasciamo cadere il suo appello, ma chiediamo la grazia di una rinnovata fedeltà a partire dalle promesse di noi sacerdoti e di tutti noi credenti che come Chiesa vogliamo camminare insieme.