Omelia per il conferimento del mandato agli Operatori pastorali

Latina, cattedrale di San Marco, 26 settembre 2014
28-09-2014

La celebrazione di oggi è ricca di significato, non solo perché completa l’avvio del nuovo anno pastorale nella nostra diocesi dopo gli appuntamenti dei giorni scorsi, ma anche perché compie un gesto espressivo dell’identità e della missione della Chiesa. Desidero dirvi una parola proprio su questo punto, per poi collegarlo con la prospettiva pastorale che abbiamo adottato e cogliere qualche spunto dalle letture bibliche del giorno liturgico.

La forma dell’aspersione per l’atto penitenziale all’inizio della celebrazione ha richiamato alla nostra coscienza credente il fondamento battesimale della nostra fede e del nostro essere Chiesa. È il battesimo che inserisce a pieno titolo nella comunità ecclesiale e conferisce la capacità di agire in essa e di assumersene le relative responsabilità. Affinché questa capacità sia attivata in modo appropriato c’è bisogno, però, della chiamata del Signore, che si esprime attraverso l’invito, l’accoglienza, il riconoscimento e l’invio da parte di chi detiene la responsabilità di guida nella Chiesa. Questo avviene anche per presbiteri e diaconi, i quali ricevono dal Vescovo il compito via via affidato in forma stabile e duratura sul fondamento del sacramento dell’ordine. In questo modo anche per loro vale la distinzione tra capacità sacramentale ed esercizio del ministero a seguito di un incarico specifico. Qualcosa di simile avviene per i ministeri e i servizi svolti dai fedeli laici. Per essi il fondamento risiede nel sacramento del battesimo, seguito dai sacramenti che completano l’iniziazione cristiana, ovvero la confermazione e l’eucaristia; ma lo svolgimento di un servizio specifico nella comunità cristiana presuppone un invito, che ordinariamente è rivolto dal parroco, il quale si può trovare anche ad accogliere e confermare una disponibilità più o meno apertamente dichiarata.

Che cosa significa tale distinzione tra capacità ed esercizio? Significa che la Chiesa è di Dio ed è solo per sua grazia che ne facciamo parte e operiamo in essa a favore dei fratelli nella fede e del mondo intero. Nessuno di noi è padrone della Chiesa; tutti ne siamo figli; perché la Chiesa è di Dio e di Cristo, che ne è il capo. Perciò da lui viene ogni iniziativa e ogni vocazione a collaborare all’opera della sua grazia. Un’altra cosa allora dobbiamo aggiungere. Perché celebrare il mandato degli operatori pastorali con una convocazione diocesana? Innanzitutto per ribadire che nessun servizio pastorale, anche il più umile e nascosto, è un prerogativa privata e che nessuna comunità è isolata dalle altre e dalla diocesi intera, nella quale soltanto si è Chiesa unita sotto il ministero del Vescovo. Ma c’è un altro motivo, più profondo, che la nostra celebrazione esprime. Solo l’unità dei ministeri e dei servizi nella comunità ecclesiale manifesta quella che chiamerei l’ultima verità pastorale dell’identità della Chiesa, e cioè che il vero pastore è sempre e soltanto il nostro Signore Gesù Cristo. Se la Chiesa non è unita, apparirà, all’esterno e anche all’interno, come un’organizzazione religiosa divisa tra gruppi e personalità più o meno efficienti e collegati, ma comunque un’organizzazione solo umana. Se il gregge invece è unito, come chiede Gesù stesso nel Vangelo di Giovanni al capitolo 17, allora apparirà a evidenza che solo una presenza superiore, divina, raccoglie in concordia e comunione comunità e persone diverse, che professano con la vita prima che con le parole che l’unico Signore e pastore della Chiesa è Cristo Gesù.

E qui viene in taglio la seconda cosa che devo dirvi. La centralità di Gesù, anche come pastore ultimo e supremo, anzi unico, motiva ulteriormente il nostro proposito di cercare e di far crescere l’incontro con lui nell’impegno pastorale dei prossimi anni. A voi, confratelli presbiteri e diaconi, e a voi persone consacrate e fedeli laici che avete accolto o offerto quest’anno la disponibilità per un servizio nella catechesi, nella liturgia, nell’attività caritativa e in tutti gli altri ambiti di vita delle nostre comunità, rivolgo l’invito a fare della vostra presenza e della vostra operosità a favore dei fratelli nella fede un modo per incontrare voi stessi il Signore e di aiutare altri a incontrarlo. E rivolgo l’invito a cercare e favorire tale incontro con il Signore Gesù innanzitutto ascoltandolo e diffondendo la sua Parola. Ascolto grato assiduo e annuncio gioioso devono caratterizzare sempre di più lo stile della nostra vita personale ed ecclesiale: perché in questo modo sperimenteremo noi per primi la bellezza di essere cristiani e faremo giungere agli altri il richiamo e il fascino che emana dal Signore Gesù per attrarre tutti alla pienezza della vita nell’incontro con lui. Dobbiamo sentire la responsabilità di lasciarci impregnare della presenza del Signore attraverso un ascolto profondo di lui nella Scrittura e nella storia, e nello stesso tempo la responsabilità di condividerlo con altri attraverso un ascolto reciproco. Da tale ascolto nascerà anche un nuovo stile di rapporti gli uni con gli altri e anche con se stessi, per recuperare così un senso più autentico di umanità e di vita sociale.

L’ascolto che ci propongono le letture proclamate oggi gettano una luce potente sul nostro cammino in questo momento. Il Vangelo (Lc 9,18-22) ci ha fatto capire che è rivolta a noi la domanda sull’identità di Gesù, con la sua alternativa così drastica tra Messia e Figlio dell’uomo, tra il Messia del successo terreno e il Figlio dell’uomo che deve morire prima di risorgere. A noi sembra di conoscerlo già Gesù. In realtà la domanda non cessa di riproporsi: chi è egli per me, per te, per noi? Abbiamo in fondo costruito la nostra vita su di lui; siamo qui per lui. Ma proprio questo rende inquietante la domanda: su quale immagine di Gesù abbiamo fondato la nostra vita? Non è che c’è qualcosa che ci è sfuggito e che ci porta a fraintendere l’identità di Gesù? Torna perciò la questione su come ascoltiamo. Ascoltiamo per difendere la nostra immagine di Dio e di Gesù, o accettiamo la provocazione della Scrittura e, attraverso di essa, della Parola di Dio che ci chiede di correggere e purificare la nostra immagine di Dio e di Gesù alla luce del mistero pasquale? Solo ascoltando fino in fondo, solo aderendo cordialmente, forse più esattamente: solo seguendo Gesù con la Chiesa sulla via della croce, impariamo ad ascoltarlo e a conoscerlo sempre di più, per ricevere per davvero il dono dell’incontro con lui. Noi l’abbiamo incontrato, ma abbiamo ancora bisogno di incontrarlo veramente.

E proprio in questa ottica di già e non ancora, il brano del Qoèlet (3,1-11) ci invita a seguire e ascoltare Dio nello scorrere del tempo. Noi possiamo essere occupati solo in una cosa per volta, come adesso in questa celebrazione, all’inizio di un nuovo anno pastorale; ma non possediamo il senso e la totalità del tempo, non dominiamo il suo inizio e la sua fine. Possiamo dedicarci con spirito di servizio, con amore e fiducia, a ciò che di volta in volta ci viene chiesto, ma senza la garanzia del successo di ciò che stiamo operando o la visione anticipata del suo esito finale. E tuttavia noi abbiamo la percezione della durata del tempo, abbiamo una qualche cognizione che c’è un inizio e c’è una fine, che c’è una unità, e quindi anche un senso, dello scorrere del tempo della nostra vita. Anche se questo non è in nostro potere, possiamo occuparci con coscienza e umiltà di ciò che sta nelle nostre possibilità, affidandoci con cuore confidente a colui che del tempo è il Signore e che lo ha già riempito con la sua vittoria sulla morte e attende di portarlo a definitivo compimento con il conseguimento della risurrezione finale.

Intraprendiamo, dunque, questo nuovo anno con la consapevolezza che ogni attimo è carico del peso dell’eternità e che un anno intero può concedere grandi consolazioni o, al contrario, chiederci di essere passato nella desolazione, mettendo alla prova il nostro reale affidamento alla promessa del Risorto. Di certo, lui continua a chiederci chi è per noi e attende ogni giorno il nostro operoso e cordiale atto di fede.