Omelia al Convegno di pastorale universitaria (28/11/2019 – Roma)

28-11-2019
OMELIA

Roma, Convegno di pastorale universitaria, 28 novembre 2019

(Dan 6,12-18; Lc 21,20-28)

+ Mariano Crociata

Percepire la forza di pagine come quelle che abbiamo appena ascoltato non è facile, non solo a motivo della distanza temporale, ma soprattutto per la differenza della nostra condizione esistenziale e spirituale. In maniera diversa le due pagine ci riportano a situazioni di persecuzione e di prova, talora estrema. Lo stato di oppressione di una potenza straniera in epoca ellenistica, proiettata nella vicenda di Daniele a Babilonia alcuni secoli prima, o la scena di una città come Gerusalemme desolata dopo la distruzione, soprattutto del tempio, lasciano intuire le domande che sorgono nel cuore dei credenti. È arrivata la fine di tutto? C’è ancora una speranza di salvezza?

Sono domande che forse non riescono a toccarci, tanto è diversa la nostra situazione, altre le nostre preoccupazioni. Nondimeno ci chiediamo che cosa queste pagine possono dirci. E non facciamo fatica a riconoscervi una valenza per la nostra storia personale, per i momenti in cui essa è attraversata dalla prova, quando prende l’inquietudine per il futuro, la paura del fallimento, il timore di vedere frantumata e dissolta la propria integrità.

Se poi allarghiamo lo sguardo oltre lo spazio circoscritto della nostra situazione personale, ci accorgiamo che non pochi si ritrovano – magari in paesi remoti – dentro qualcosa come una fossa di leoni, pronti a venire dilaniati a motivo della loro fede o delle loro convinzioni, e ci accorgiamo che accanto alle macerie materiali, che pure vengono prodotte dall’opera dell’uomo o da quella di una natura stravolta nel suo fragile equilibrio, ce ne sono di spirituali e morali tali da schiacciare ogni velleità e speranza di futuro, e queste anche molto vicine a noi. Qui non è più in questione soltanto una via di fuga privata, individuale; è in gioco un destino comune. Del resto, accanto alle forme istituzionali di custodia della convivenza e del senso, anche quelle religiose danno inequivocabili segnali di disfacimento e di crollo.

Avere speranza è la sfida, come atteggiamento personale e come risorsa collettiva che scaturisce dalla fede. Ma – viene da chiedersi – qual è la temperatura della nostra fede? Spesso troppo bassa per infondere l’energia necessaria a sostenere la speranza. C’è da riscoprire insieme la persona di Gesù risorto – in qualche modo prefigurato da Daniele liberato dalla fossa dei leoni – come riferimento essenziale dell’esperienza personale e comune del credere. È Lui a segnare l’orizzonte ultimo entro cui possiamo condurre in autenticità la nostra vita in questa epoca.

Oggi avete riflettuto sull’università come comunità di studio, di ricerca e di vita. Un tale compito ha bisogno di tante cose, ma alla fine anche di un respiro lungo e di un orizzonte adeguato, fatti non solo di impegni e di pensieri, ma di presenza e di relazione con il Signore, vera prospettiva escatologica della nostra vita e della nostra storia. Se il Signore non scalda il cuore, al momento del pericolo vincono le paure, e quando non ci si sente in pericolo prevalgono l’inedia e la dispersione, l’adattamento all’utile e al conveniente, o, nel peggiore dei casi, il cinismo o la fuga dalla realtà.

La fede dovrebbe infonderci la serena certezza che nulla è in pericolo se siamo con il Signore, ma nello stesso tempo possedere l’ardore di un amore capace di accendere i cuori e risvegliare le anime attorno a sé, un amore con il quale dedicarsi all’opera dello studio e della ricerca, ma anche a quella dell’amicizia e della comunione, del servizio e dell’accoglienza.