Discorso del Vescovo all’assemblea del clero pontino (16/09/2022 – Curia diocesana, Latina)

16-09-2022

Assemblea del clero

Venerdì 16 settembre 2022

Introduzione del vescovo Mariano Crociata

Vi saluto tutti con affetto e simpatia. Vorrei trasmettervi il mio più grande desiderio in questo momento: che possiate

  • essere contenti di essere preti e diaconi,
  • sentire la gioia di dedicarvi al Signore nella Chiesa per il bene delle persone che vi sono affidate e che incontrate,
  • contribuire efficacemente a edificare comunità vive e in comunione.

Un nuovo anno

All’inizio di un nuovo anno pastorale è importante esaminarci, per vedere con quale animo ci stiamo disponendo ad intraprenderlo. Ciascuno lo faccia con se stesso e insieme proviamo ad aiutarci in questo esame. Mi tocca il pensiero che ricevo in dono un nuovo anno di ministero e che esso è unico e irripetibile. Non tornerà più. È un’occasione che non posso perdere. Devo fare di tutto perché sia vissuto al meglio.

Accanto a questo, anche il pensiero che la vita di altri dipende da come io mi accingo a vivere questo tempo della mia storia. A qualcuno può anche capitare di pensare che se avesse a che fare con altre persone rispetto a quelle ha attorno o con situazione differenti: altri confratelli, diaconi e preti, altri fedeli, un’altra parrocchia, un’altra città, un’altra diocesi, un altro vescovo, un altro incarico; o, ancora, se le cose nella vita fossero andate diversamente, allora farebbe senz’altro meglio e le cose andrebbero bene, come dovrebbero andare. Se qualcuno pensa così, sappia di avere a che fare con una tentazione, senza ombra di dubbio. Perché, se una cosa è certa, è che questo è il luogo e il tempo in cui Dio chiama. Questo è il posto giusto e il momento giusto. Non ce n’è un altro. E se è quello giusto e non può essercene un altro, allora è davvero Dio che mi sta chiamando. Devo fare di tutto per vivere bene, per cominciare al meglio questo nuovo anno e portarlo avanti con la serenità e la gioia che mi sono concesse. Gli altri magari non mi saranno di aiuto, mi ostacoleranno, mi ignoreranno e anche le circostanze mi saranno avverse: qualunque cosa accada, ciò che dipende da me non mi può essere tolto, e la responsabilità per ciò che dipende da me mi costringerà comunque a rispondere – di fronte alla mia coscienza e di fronte a Dio – di che cosa ne ho fatto di quanto dipende da me. Ricordiamo la parabola dei talenti: l’anno che comincia è un talento. Potrà essere gramo, sfavorevole, pieno di ostacoli interni ed esterni, ma rimane pur sempre il talento che il Signore mi affida.

D’altra parte, la responsabilità personale, unica e inconfondibile, non mi isola dagli altri, perché il ministero vive della Chiesa e nella Chiesa. Nella Chiesa si lavora insieme perché il ministero è personale ma non isolato e autosufficiente. Fare bene il proprio servizio, singolare e personale, è senz’altro già un costruire la comunità e la Chiesa. E tuttavia non è possibile costruire veramente senza condivisione, partecipazione, collaborazione, a tutti i livelli. Il cammino sinodale che la Chiesa sta conducendo è un invito a riscoprire questa dimensione essenziale della nostra fede, della nostra appartenenza, del nostro ministero.

E lavorare in comunione significa non dimenticare l’altro, incontrarlo, ascoltarlo, coinvolgerlo. Spesso è fatica lavorare insieme. Da soli, si fa meglio e prima. Sarà vero, anche se non so fino a che punto. Ma se anche fosse vero, il risultato non sarebbe mai lo stesso. Perché da soli avremo svolto una attività, insieme avremo costruito comunità, e cioè buone relazioni e soprattutto unità. Il Signore prega che siamo una cosa sola, una unità, perché senza unità non c’è presenza del Signore in mezzo a noi. E non c’è Chiesa. Ma noi nasciamo nella Chiesa e grazie alla Chiesa, sia come credenti, con il battesimo, sia come ministri, con l’ordinazione. Non mi sono battezzato da me, come non mi sono fatto prete da me. E quindi nemmeno per me. Dobbiamo rendere conto gli uni agli altri di ciò che siamo e di ciò che facciamo. Chiediamo al Signore di imparare lo stare insieme, il lavorare insieme, il costruire comunione ma con il cuore, non con le pacche sulle spalle.

Cammino sinodale e Percorso IC

L’anno che inizia ci chiede di portare avanti il cammino condotto fin qui e di fare un passo nuovo. Da portare avanti sono il Cammino sinodale insieme alle Chiese d’Italia e con la Chiesa tutta, e il Percorso dell’Iniziazione Cristiana. La tappa di quest’anno dell’uno e dell’altro ci saranno distintamente presentati fra poco. A me tocca sottolineare che non si tratta di due attività che qualcuno ci impone di fare e nemmeno di due impegni giustapposti l’uno all’altro che non abbiano nulla in comune.

Sempre per far riferimento a quanto detto sopra, tutto quello che facciamo può essere considerato come una cosa da fare, imposta più o meno direttamente da qualcuno. Ma nella Chiesa, quando si tratta del cammino comune, non c’è nulla di esteriore e di imposto, quando si tratta del bene dei fedeli e della crescita della fede comune. Ogni indicazione è una opportunità, un segno provvidenziale. Il Cammino sinodale nasce per iniziativa del papa e adesione dei vescovi, ma esso ci chiama, nel nome del Signore, a dare una svolta alla nostra vita di Chiesa e un reale rinnovamento alle nostre comunità, spesso stanche e demotivate, non meno di noi qualcuno potrebbe dire.

La stessa passione dobbiamo chiedere e risvegliare per un Percorso dell’Iniziazione Cristiana concepito e condiviso allo scopo di rispondere alla fatica e alla povertà di tante nostre comunità, a partire da una profonda revisione del processo di ingresso e di adempimento dell’iniziazione cristiana. Siamo partiti dall’iniziazione cristiana e ci siamo ritrovati tra le mani una nuova immagine di comunità parrocchiale e un nuovo volto di Chiesa. Perché il Percorso non è roba da bambini; esso può essere compiuto solo se ci sono insieme i genitori, i ministri ordinati, i ministri istituiti, i collaboratori laici a tutti i livelli, insomma una comunità intera, una comunità viva. Il Percorso è uno strumento per edificare la Chiesa, un metodo per fare comunità, una possibilità di dialogo e di incontro con gli adulti di oggi quali primi destinatari dell’annuncio evangelico. Non è un gioco da bambini, è una questione da persone adulte e serie.

Il nesso tra Cammino sinodale e Percorso oggi ci appare in modo ancora più chiaro. Lavorare a costruire il Percorso ci chiede di lavorare insieme e ci aiuta a imparare a farlo. Non si può portare avanti un cammino di Chiesa lavorando ognuno per conto proprio o senza sapere cosa fa l’uno o l’altro. Ci vuole un cammino comune, una condivisione di progetto e di attività. Recepire e attuare il Percorso ci rende sempre di più Chiesa sinodale, e come tale ci apre sempre di più non solo alle aspettative dei nostri fedeli, ma anche alle richieste di senso e spesso di vera e propria fede, o almeno di risveglio di fede, di tanti giovani e adulti che affrontano con serietà le sfide della vita e del mondo di oggi rimanendo sensibili al richiamo del Signore. Per questo vi chiedo di non far passare invano l’occasione che il nuovo anno ci offre. E aggiungo che a impegnarsi, a spendersi generosamente per qualcosa che merita, tanto più quando viene dal Signore, c’è solo da guadagnare anche in qualità di vita personale: facciamo esperienza di maggiore contentezza, di fiducia e di coraggio, di speranza di un futuro migliore per noi e per gli altri.

Bisogno di spiritualità

È in questa prospettiva che abbiamo condiviso l’idea di fondo del cammino pastorale di quest’anno individuandola nella riscoperta della spiritualità. In verità, in certi momenti sembriamo persone così prese dalle mille cose da fare da essere a rischio di perdere il senso e le motivazioni di ciò che siamo e di ciò che facciamo. Non si tratta di aggiungere nuove attività, ma di assumere un’ottica, una prospettiva secondo cui guardare e fare le cose. Abbiamo bisogno di un centro – un famoso artista cantava: “un centro di gravità permanente” – che dia ad ogni cosa il suo posto e all’insieme il suo equilibrio e le giuste proporzioni. Dedicherò a questo tema la lettera pastorale di quest’anno, con l’intento di riprendere quella che paolinamente chiamiamo “vita secondo lo Spirito” e che ritroviamo esemplarmente in colui che è per eccellenza l’uomo pieno di Spirito Santo, il Figlio eterno di Dio diventato uomo in Gesù di Nazaret.

Conformarci a lui è il compito di una vita credente e diventa in un senso specifico nostro impegno di quest’anno. Quando parliamo di spiritualità intendiamo un’esistenza che cerca di uniformarsi nella sua concretezza alla Parola di Dio, all’esempio di Gesù, alla comunione di preghiera e di grazia con Dio, all’ispirazione dello Spirito nel discernimento personale ed ecclesiale che permette di riconoscerla e accoglierla. Spiritualità non è una interiorità avulsa dall’esistenza e dalla storia con i suoi drammi e le sue fatiche, ma uno stare alla presenza di Dio dentro tutte le condizioni che la vita presenta. Dunque non è questione di pratiche devote né di intimismi misticheggianti – spiritualità è ben altro dallo spiritualismo – ma di coscienza credente vigile e solida in mezzo alle vicende umane. La fede vera si vive non nelle pratiche rituali, ma aderendo a Gesù nel suo Spirito dentro le forme dell’umano, cioè le condizioni ordinarie di vita, la famiglia, l’amore, le relazioni, il lavoro, la festa, la sofferenza, il tempo libero e tutto ciò di cui è fatta l’esistenza umana.

Non vi scandalizzate né vi offendete se vi dico che è possibile recitare riti e celebrazioni senza trasmettere nessun raccoglimento, concentrazione, insomma nessuna spiritualità e perfino nessuna fede. Anche la Messa può diventare un mestiere. E questo può risultare il paradosso estremo della nostra condizione: le cose che consideriamo ordinariamente il luogo della spiritualità ridotte alla negazione della spiritualità. Credo, da questo punto di vista, che dobbiamo lavorare molto su noi stessi per recuperare questa dimensione di verità credente della nostra vita di cristiani, di preti, di diaconi. Dobbiamo guardarci da una delle tentazioni specifiche della nostra condizione, che è quella di fare della vita una recita. È una tentazione di tutti, nel gran teatro della vita, in cui ciascuno, come si dice, recita a soggetto, anche se poi non ci vuole molto a scoprire il vero volto che si nasconde dietro la maschera che si cerca di indossare e con cui si vuole apparire. Ma è una tentazione specifica per noi, perché il nostro mestiere è, per così dire, rappresentare.

Noi siamo rappresentanti di un Altro, di “altro”, e il nostro agire più proprio e autorevole, in senso formale, è rappresentare, ‘celebrare’ appunto, cioè dare solennità alle parole e ai gesti consueti attraverso una forma rituale che vuole far risaltare e attualizzare l’evento originario che si rinnova attraverso la nostra persona e il nostro agire. La qualità del nostro agire rituale dipende dall’interiorità che ci anima nell’atto di compiere i gesti sacri. Ci vuole una interiorità davvero coltivata perché questo si compia. Per questo dobbiamo curare la nostra formazione permanente e la nostra vita di preghiera, i nostri tempi di meditazione e di dialogo spirituale. Forse quest’ultimo è quello che più ci manca e di cui purtroppo invece non avvertiamo il bisogno. Finché il desiderio di spiritualità non ci pervade, il nostro ministero è destinato ad essere infelice. E un tale desiderio ci pervade se penetra in qualche modo nella nostra vita ordinaria, nei tempi delle nostre giornate, nel tessuto delle nostre relazioni, nello svolgersi dei nostri conversari, dei colloqui che intrecciamo con un numero talora incalcolabile di persone ma senza mai sfiorare ciò che dovrebbe toccare più intimamente la nostra anima.

Abbiamo molto da riflettere su questo, non solo per noi stessi, ma anche per quelli di cui portiamo la responsabilità. Sono convinto che molta gente è alla ricerca di spiritualità, ma si allontana da noi perché non la trova nelle nostre chiese. Da noi tutti trovano riti e devozioni, perfino tanta agitazione, mai (o quasi mai) un po’ di silenzio, un tempo di ascolto, di meditazione in comune, di dialogo spirituale, cioè di condivisione di ciò che Dio opera nel cuore e nella vita di ciascuno, a cominciare dalla persona e dalla vita di noi preti. Ci lamentiamo che le famiglie cercano i sacramenti (dal battesimo al matrimonio passando per la comunione e la cresima) perché sono interessati a organizzare una festa (che non è propriamente una cosa perversa, anzi profondamente umana) e non al significato del sacramento che celebrano. Ma chiedo a me e a voi: quale fascino avvertono di ciò che questi sacramenti sono, significano, trasmettono? Al più hanno delle spiegazioni molto concettose dei vari aspetti dei riti e della dottrina sacramentaria. Che cosa c’è che fa vibrare il cuore di chi si accosta a una sacramento? E quale vibrazione possono cogliere quelli che si rivolgono a noi se nel nostro cuore per primo non vibra qualcosa che ci ha affascinato e conquistato?

Questo non vuol dire che la spiritualità ha a che fare solo con l’emozione, ma nemmeno si può ammettere che l’emozione sia lasciata fuori e che sia solo questione di concetti. Questo non lo accetto perché è la negazione della religione dell’amore. Noi crediamo in un Dio d’amore, non in un motore immobile o nel mondo delle idee. E spiritualità significa non solo pensiero, verità, dottrina; significa anche affetto, emozione, sentimento, legame, trasporto, percezione di qualcosa di bello che si incarna nella vita di tutti i giorni e rende felici le relazioni buone e sane di una comunità fraterna dentro la quale si vuole crescere in umanità e bene per sé e per gli altri. Perché la spiritualità cristiana coinvolge tutta la persona, corpo e anima, e non solo spirito. Del resto coerentemente con una sana antropologia, non possiamo ammettere nessun dualismo. Una persona spirituale è una persona unificata, nella quale tutte le dimensioni del suo essere e le sue manifestazioni sono ricongiunte in unità grazie alla coscienza e a una scelta che conferisce armonia a tutti gli aspetti della persona attorno al centro che è Cristo Gesù.

Del resto, che cosa è Gesù se non il modello perfetto e l’esemplare più riuscito di tale umanità piena e unificata dallo Spirito suo e del Padre? È lui che ci insegna che cosa significa essere umani ed essere credenti. Non può esistere una fede disumanizzante e una umanità realmente tale che rimanga chiusa a Dio. Tale ideale noi seguiamo con piena convinzione e con tutta la partecipazione, anche affettiva, del nostro essere.

La sfida lanciata a chi abbracci la fede in questa prospettiva spirituale integralmente umana e cristiana sta nell’assumere la condizione umana e la vicenda storica che ha avuto in sorte. Quando noi pensiamo a questo nostro tempo, sentiamo il dramma che pulsa nella mente e nel cuore di interi popoli provati dal pericolo e dalla paura, o almeno dall’incertezza sul futuro che ci attende. Come vivere da credenti, sostenuti da una spiritualità cristiana, una condizione dell’umanità come quella attuale? Non c’è nessuno che ce lo possa dire in anticipo. Possiamo cercare nella Scrittura e nella storia della santità cristiana degli esempi che ci illustrino come, in situazioni analoghe, è stata trovata una risposta a quella grande domanda di spiritualità e di fede. L’esempio per eccellenza rimane sempre lui, Gesù di Nazaret, a cui dobbiamo sempre tornare. Nella sua luce possiamo trovare altri esempi che traducano in situazioni e tempi diversi la ricerca della medesima risposta. In questa ottica abbiamo cercato in particolare un esempio biblico, una icona che potesse accompagnarci nel corso di quest’anno. L’abbiamo trovata, nel senso che abbiamo preferito, nella figura di Elia profeta, uno dei grandi uomini di fede dell’Antico Testamento, la cui scia si prolunga fin dentro il Nuovo Testamento, con Gesù che lo indica in qualche modo presente in Giovanni Battista e che lo accoglie, per così dire, come ideale interlocutore in un dialogo celeste insieme a Mosè nella trasfigurazione.

Quest’anno vogliamo farci accompagnare da questa straordinaria figura di profeta. Speriamo in tal senso di predisporre una proposta di traccia per la lectio divina, per il dialogo spirituale e per la meditazione personale seguendo il ciclo di Elia dagli ultimi capitoli del primo libro dei Re ai primi del secondo libro dei Re. Per noi presbiteri e diaconi, insieme ai tre ritiri, sono programmati quattro incontri tematici su: la spiritualità presbiterale, l’accompagnamento spirituale, la spiritualità liturgica, la spiritualità nelle religioni e la spiritualità senza Dio. Nell’assemblea diocesana di metà anno, a febbraio, vorremmo offrire una occasione di riflessione sulla spiritualità a tutti. Sono fiducioso che questa attenzione privilegiata darà un colpo d’ala a tutto il nostro impegno ecclesiale, quale sarà adesso presentato e a cui mi assocerò con alcune comunicazioni alla fine della nostra assemblea.

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