Omelia per la Veglia di Pentecoste (07/06/2014, Cattedrale di Latina)

16-06-2014

È una gioia ritrovarci nella solennità di Pentecoste. Sento con voi di ringraziare il Signore, perché ci concede di fare compiuta esperienza di Chiesa in una tappa così importante dell’anno liturgico. Tutti gli stati di vita e le condizioni ecclesiali sono qui presenti, efflorescenza feconda di una radice che ci fa risalire al cenacolo, dove ha avuto luogo l’esplosione originaria dello Spirito trasformando un gruppo sparuto e spaurito di discepoli nel corpo ecclesiale del Signore risorto. Per quanto diverse siano le storie che ci hanno condotto fin qui, è là ed è allora che tutti siamo nati. La Pentecoste è la nostra radice e stasera si rinnova quell’evento che non ha mai più smesso di riproporsi come rigenerazione della Chiesa e dell’umanità intera. Tutto ciò che si compie come crescita dell’umano e progresso nel bene, oltre che figliolanza divina e partecipazione di grazia, si attua sotto l’effetto del fuoco e del vento dello Spirito. La storia della Chiesa è una cascata incessante di effusioni di Spirito Santo. Ma nessuna di esse è uguale all’altra, poiché ogni volta che avviene, compie qualcosa di nuovo e irripetibile. Perciò affiorano spontaneamente le domande: come ci trova questa Pentecoste? Che cosa ci dona, che cosa ci lascia? E infine: che cosa ci chiede?Ognuno sa dentro di sé quanto vasto è il campo delle risonanze; perciò – senza la pretesa di essere esaurienti – ci accontenteremo di dire qualcosa che si integri nel comune cammino di preghiera e di riflessione.
Come ci trova, dunque? Avvertiamo al riguardo che, sul piano diocesano (ma qualcosa di simile si potrebbe dire su altri piani, da quello universale a quello personale), l’insidia dentro cui ci troviamo facilmente impigliati non è la diversità ma la divisione. La diversità è ricchezza, se accolta e ridonata in una circolarità armoniosa; impoverisce e distrugge, invece, se si trasforma in arma per emergere e contrapporsi, nell’affermazione delirante di sé e nella dimenticanza degli altri e di Dio. Ma non c’è solo la tentazione della divisione; c’è anche quella prodottain questo tempo dalle preoccupazioni per le condizioni materiali di vita che rischiano di prendere il sopravvento e di rivelarsi malattia dello spirito, come lo scoraggiamento, la perdita delle motivazioni, la stanchezza e l’accidia. E poi, ancora, non possiamo dirci certo immunizzati da una cultura che idolatra una vita senza pesi e responsabilità, votata narcisisticamente al culto di sé e del proprio godimento.
Ciononostante, è bello vedere, in questo quadro, fermenti di vitalità e di entusiasmo, persone, famiglie, gruppi e comunità in cui si sperimenta all’opera la forza sorgiva dello Spirito. Soprattutto questi fermenti andrebbero evidenziati, conosciuti e condivisi, per sostenerci a vicenda in una resistenza contro la corrosione dell’anima e nella costruzione di una comunità che crea cultura ispirata dalla fede e che trasforma ambienti e relazioni per farli diventare più umani e aperti al divino.
Che cosa ci dona? La presenza personale dello Spirito che apre i cuori al Risorto. Essa instaura un’unità interiore al livello più profondo delle persone, che – volendo seguire le suggestioni delle letture proclamate – fa desiderare e rende possibile comunicare tra di noi e comprenderci (cf. G¿en 11,1-9), fa accogliere l’alleanza del Signore e la sua Legge come un dono che non rimane all’esterno, ma penetra il cuore dei credenti generando corrispondenza tra ciò che il Signore si attende e ciò noi siamo capaci di volere (cf. Es 19), fa rianimare le persone ridando vita, fiducia, speranza (cf. Ez 37,1-14), suscita spirito di profezia, cioè di visione nella luce di Dio delle vicende personali e di quelle comunitarie e sociali (Gio 2,28-32). Il dono dello Spirito abilita ad accompagnare, insieme a preghiere e a molte prove, il parto della nuova creazione, quel mondo migliore, trasformato, che tutti agogniamo (Rm 6,22-27).
Come avviene, questo, in concreto? Come si riceve il dono? Dobbiamo imparare a guardare soprattutto il bene che è all’opera, il lato luminoso della realtà, la direzione di crescita e di maturazione che l’esperienza ordinaria comune contiene, i protagonisti positivi della piccola storia di uomini e donne di oggi, senza invidie e gelosie, godendo del bene che il Signore dissemina dappertutto, anche là dove a noi sembra che esso non sia meritato. Il Signore a volte sembra divertirsi a fare cose buone con strumenti umanamente considerati inadatti e perfino sconvenienti. Se solo pensiamo a com’era considerato Gesù stesso, la “pietra di scarto”! Il dono è dunque la possibilità di pregare, di sperare, di lavorare con buona lena nonostante tutte le controindicazioni e le dissuasioni, la possibilità di aiutare il bene già presente con uno sguardo positivo e costruttivo, accompagnando il grano che sta crescendo con un amore più forte dell’odio per la zizzania che non riusciamo a estirpare.
Alla domanda “che cosa ci chiede, questa Pentecoste?” mi sembra, allora, che la risposta debba essere quella suggerita dal Vangelo: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me» (Gv 7,37-39). Desiderare Gesù, andare verso di Lui, incontrarLo. È Gesù il termine di ogni nostra attesa e l’appagamento di ogni nostro anelito. Attesa e desiderio sono il segno di uno Spirito già all’opera in noi, che non solo disseta ma rende capaci di dissetare altri. È proprio toccante ascoltare questo Gesù che disseta e rende capaci di dissetare. È un evento simultaneo, contro tutte le nostre sterili dissezioni pastorali e tanti nostri inutili processi formativi che non formano nessuno perché privi di anima.
Ci è chiesto, innanzitutto, di trovare la nostra unità nel Signore Gesù e attorno a Lui. Può essere individuato così il principio e la ripresa del nostro impegno per il futuro, il compito per i prossimi anni: incontrare Gesù e aiutare altri a incontrarLo, il rifarci discepoli per diventare condiscepoli di altri o renderli tali. Papa Francesco ci sta insegnando che non si ravviva la gioia e l’entusiasmo della nostra fede senza sentire l’ansia di condurre altri a Lui. Lo stigma rivelatore di un cristianesimo stanco è il suo disinteresse spirituale, il suo carattere insipido e la sua invincibile inerzia e incapacità di contagiare e trascinare altri.
Questa Pentecoste ci dà un appuntamento, che prima che una scadenza temporale presenta una sfida a intraprendere il cammino della fede e della Chiesa con rinnovato slancio. I prossimi mesi e l’inizio del nuovo pastorale non mancheremo di ricordarci di questo appello che oggi è il Signore stesso a rivolgerci.