Omelia per l’assemblea foraniale di Latina-Borghi (16/10/2020 – Curia diocesana di Latina)

16-10-2020

OMELIA

Assemblea foraniale Latina borghi

16 ottobre 2020

+ Mariano Crociata

La pagina evangelica di questo giorno liturgico (Lc 12,1-7) parla proprio a noi qui riuniti per il conferimento del mandato ai collaboratori pastorali dei parroci nelle comunità dei borghi di Latina. E lo fa interpellando le nostre persone e invitandoci a scrutare la nostra vita, sempre attraversata dalla tentazione della doppiezza o, come la chiama Gesù, della ipocrisia, destinata a diventare sistema di vita quando venga adottata reiteratamente. Allora si verifica un fenomeno terribile dal punto di vista morale e spirituale, perché l’ipocrisia diventa abito mentale che si legittima fino a trasformarsi in una corazza di cui non si avverte più l’estraneità, perché percepita come parte integrante della propria forma e identità. Quando non si percepisce più che un determinato atteggiamento o comportamento è indebito e inappropriato, allora ci si viene a trovare in una condizione morale e spirituale davvero grave, perché non si avverte più il bisogno di cambiare, non si riconosce più ciò che è sbagliato, ma sembra invece giusto, naturale, al suo posto.

Qualcuno ha parlato, a questo proposito, di un’anima ‘già fatta’, cioè ormai definita e indurita in un determinato atteggiamento, al punto che non può più essere cambiata, perché non vede più perché e che cosa dovrebbe cambiare. Per questo Gesù mette in guardia con grande severità: «Guardatevi bene dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia». Lievito, perché è qualcosa che fermenta dal di dentro tutta la persona, la quale cerca di apparire in un modo, ma nutre pensieri e prende decisioni in contrasto con ciò che appare. Bisogna guardarsi dunque da questo sdoppiamento, una specie di dissociazione della personalità, di schizofrenia spirituale destinata a distruggere interiormente una persona. Un singolo peccato, anche grave, finché è riconoscibile e viene giudicato rettamente dalla coscienza, può essere combattuto e contrastato con la grazia di Dio; non così un atteggiamento consolidato che viene pacificamente accettato anche se è – per stare a un’altra parola di Gesù – come un sepolcro su cui non si sa di camminare (una contiguità che per un pio ebreo è ripugnante, perché produce automaticamente contaminazione e corruzione).

Una dissociazione si può produrre anche – e questo tocca il nostro ruolo di collaboratori pastorali – a motivo della paura delle conseguenze della nostra testimonianza o del nostro annuncio o ancora di altri servizi ecclesiali. Al tempo di Gesù o ancora dopo, il pericolo consisteva nell’essere perseguitati dalle autorità giudaiche; oggi non c’è tale rischio, almeno da noi. Ma ci sono altri motivi che possono scoraggiare il nostro impegno ecclesiale; pensiamo un momento a quali possono essere: la paura del giudizio degli altri, ma forse di più la paura della fatica, il desiderio di comodità; oggi in particolare si insinuano motivi più sottili, come il dubbio che afferra, o anche la perdita progressiva del fervore e dell’entusiasmo della fede, la sfiducia negli altri, la sollecitazione che viene dal sorgere di altri interessi.

Può sembrare strano, ma anche questo tipo di motivi nasce dalla paura di mettere in pericolo la propria vita, non per una possibile persecuzione ma – oggi in particolare – per l’impossibilità di fare ciò che piace, di assecondare nuove voglie, di non essere legati a impegni e obblighi che chiedono fatica; così si insinua la paura di perdere la propria vita se non la si sfrutta per ciò che piace e che dà la sensazione di possederla.

Il segreto di ogni impegno ecclesiale, come di ogni esperienza di fede, è la fiducia incondizionata nel Signore, non per stare tranquilli e senza problemi, ma per vincere la paura del fallimento della propria vita. Credere e servire il Signore nei fratelli e nella comunità ecclesiale diventa possibile quando si è fermamente convinti che la nostra vita è al sicuro soltanto con il Signore, sempre e dovunque. Questo dà una libertà interiore tale che uno può affrontare tutto con una riscoperta unità di persona e di vita – senza più dissociazioni tra apparenza e realtà – e dedicarsi cordialmente ai servizi che gli altri attendono da noi non solo in famiglia e nel lavoro, ma anche nella comunità parrocchiale quando proprio questo ci è chiesto.