Omelia Mandato ai ministri e collaboratori pastorali (09/10/2015 – Latina)

09-10-2015

OMELIA

Mandato ai ministri e collaboratori pastorali

Cattedrale, Latina, 9 ottobre 2015

+ Mariano Crociata

 

Ci siamo raccolti in cattedrale stasera per chiedere grazia e luce all’inizio del nuovo anno pastorale. Siamo qui a professare che c’è una scelta dall’alto su di noi, che precede e fonda la nostra risposta e la disponibilità a servire con la nostra collaborazione la missione pastorale della Chiesa. Siamo stati scelti; siamo dei chiamati. Tutto ciò che possiamo fare nella Chiesa non è una nostra benevola concessione; e nemmeno un prestigio di cui portare vanto o un potere da esibire e usare nelle relazioni con gli altri.

Il nostro essere qui e le varie forme di servizio che riusciamo a prestare nelle nostre comunità e nei vari settori della vita diocesana sono espressione del nostro amore alla Chiesa. Il nostro vuole essere un atto d’amore alla Chiesa che conferisce concretezza di esistenza alla fede e all’amore che il Signore con il suo Spirito ha riversato nei nostri cuori. Siamo un dono d’amore di Dio e vogliamo essere, a nostra volta e per sua grazia, una risposta d’amore.

L’essere radunati tutti insieme esprime anche la condivisione di una medesima vocazione e condizione, quella di chiamati alla fede, rigenerati nel battesimo, costituiti nella comunione e nella dignità di fratelli perché figli di Dio. Senza nulla togliere al necessario ordinamento gerarchico e alla diversità dei carismi e dei ministeri, a partire da quello ordinato, un unico afflato spirituale e un unico anelito pastorale circola tra di noi e ci rende un corpo compatto dedito all’annuncio, alla preghiera, alla carità. Vogliamo servire l’unico Signore e perseguire il fine che egli ci indica.

L’obiettivo unitario che ci viene indicato è inscritto nei compiti ordinari propri della vita della Chiesa: la catechesi e la formazione cristiana, la celebrazione dei sacramenti e la preghiera, le relazioni fraterne e la carità. Dentro questo cammino ordinario la Chiesa oggi ci chiede di trovare dei filoni nuovi di rivitalizzazione dell’esistenza cristiana e della presenza della fede nel mondo di oggi, primo fra tutti un ascolto che diventi stile di vita, modo di sentire, attitudine di fondo, forma di esistenza alla presenza di Dio e dei fratelli.

Non ci siamo per assolvere a dei servizi a vantaggio di noi stessi, per ottenere una qualche gratificazione, anche se dobbiamo curare la nostra edificazione e la crescita del nostro organismo credente. Apriamo gli occhi sul mondo attorno a noi, su coloro che incontriamo nella nostra corsa quotidiana, per cogliere il loro desiderio di Dio e il desiderio di Dio verso di loro. Dobbiamo imparare ad ascoltare e raccogliere in tutti la pena e il dolore, il bisogno di attenzione e di accoglienza. Dobbiamo soprattutto diventare più sensibili verso i processi e le situazioni di disumanizzazione che decompongono il tessuto sociale e le relazioni attorno a noi; e far cogliere e testimoniare, all’opposto, la capacità di umanizzazione dell’esistenza cristiana, senza chiudere gli occhi di fronte ai fermenti di bene dovunque e in chiunque essi si trovino; dobbiamo imparare ad avere uno sguardo attento nei confronti della famiglia, soprattutto quando essa attraversa momenti difficili o soffre lacerazioni e divisioni. Ricordiamo sempre che nella Chiesa non ci sono solo ministri e collaboratori pastorali; e se questi ci sono, come lo siamo noi, è solo per aiutare e servire chi non sta in alcun gruppo, in alcun movimento e associazione, in alcuna organizzazione, così che nessuno debba sentirsi ignorato e trascurato, né dentro né fuori della comunità. Non ci siamo per noi stessi; ci siamo per gli altri, e ancor prima gli uni per gli altri.

Ricordiamo soprattutto che ciascuno di noi e tutti noi insieme siamo, nella maggior parte dei casi, il biglietto da visita che la Chiesa esibisce a chi la cerca e la incontra. L’immagine di Chiesa che la maggior parte delle persone si porterà appresso, in alcuni casi per tutta la vita, sarà quella offerta dalla nostra persona, dal nostro atteggiamento e modo di fare, dal nostro essere bruschi o cortesi, attenti o scontrosi, pieni di rispetto o arroganti e presuntuosi. Il Signore ci ha scelti per incontrare attraverso di noi quelli che vuole chiamare. Come incontrano il Signore quelli che ci incontrano? Pensiamo – in una ideale rassegna di situazioni – ai bambini che vengono per la catechesi, ai bambini e ai ragazzi che chiedono di giocare negli spazi parrocchiali dove questi ci sono, che entrano in chiesa per un motivo o per un altro; pensiamo ai giovani, magari scanzonati o strafottenti che però portano dentro una sete di infinito che nessuno aiuta a far affiorare; pensiamo alle mamme e ai genitori che sembrano preoccupati solo di aspetti futili ma portano il peso di una esistenza che attende di essere sbrogliata come un gomitolo arruffato di cui non riescono a venire a capo senza saperne parlare con nessuno; pensiamo alle coppie che aspettano un bambino o che ne portano uno al battesimo, alle coppie che fanno fatica a stare insieme o a quelle che si sono già separate, alle famiglie che hanno anziani e malati in casa, agli stessi anziani e malati che visitiamo o a cui portiamo la comunione, ai giovani che si preparano al matrimonio o alle persone che hanno vissuto una disgrazia irreparabile o sperimentato un dolore inconsolabile; ai giovani e adulti che non sanno dove sbattere la testa per trovare un lavoro o a quelli che non sanno che farsene del lavoro perché non hanno voglia di niente se non di passare il tempo e di spassarsela, a quelli che cercano di servirsi della religione per i loro comodi o per i loro scopi, a quelli che hanno fatto dell’accattonaggio un mestiere e a quelli che si vergognano di chiedere ma non sanno come arrivare alla fine non del mese ma della giornata, e insomma a tutti quelli che incrociamo nel nostro servizio ecclesiale. Quale immagine di Dio e di Chiesa ricevono e si portano dietro tutte queste persone quando ci incontrano? Rispondendo alla chiamata del Signore ci siamo presi questa responsabilità, di saper rispondere a una tale domanda. E il Signore ci chiederà conto non di quante ore abbiamo speso in chiesa e di quante belle cose abbiamo fatto dentro le quattro mura dei nostri luoghi sacri, ma di che cosa ne abbiamo fatto dei fratelli e delle sorelle che ci hanno cercato e incontrato.

Tutto questo, e altro ancora di arduo e drammatico, ma anche di bello e significativo, impareremo e vivremo nel corso di quest’anno se avremo cura al di sopra di tutto dell’ascolto del Signore. E il Signore non sempre ci dice ciò che ci aspettiamo o che ci piacerebbe sentir dire, come capita pure oggi con le letture del giorno liturgico.

Il brano di Gioele ci mette dinanzi la distruzione di una intera annata di lavoro nei campi e la perdita irreparabile di un raccolto faticosamente agognato. Quale senso dare, come affrontare una disgrazia di fronte alla quale non c’è un colpevole da accusare o una causa da rimuovere? La risposta del profeta invita semplicemente a rimettersi alla presenza di Dio, a leggere anche una tale circostanza come un segno e un appello di Dio, a ritornare alla coscienza che il tempo dell’esistenza è come attratto dal suo punto estremo di convergenza, il giorno del Signore. Precarietà dell’esistenza, affidamento a Dio per riceverne senso e compimento sono il frutto di un’esperienza che invita a rimettere a Dio tutto di se stessi, certi che egli avrà sempre cura di noi.

Non dice in fondo qualcosa di importante anche a noi questa pagina? Quante volte nel nostro impegno pastorale sperimentiamo di avere faticato invano e che tutto ciò per cui ci siamo sacrificati è mandato in fumo da un nonnulla? Oserei dire che soprattutto il nostro lavoro pastorale è esposto al rischio del fallimento e della vanificazione. Nulla può darci certezza sull’efficacia, il risultato, la persistenza di ciò per cui ci siamo tanto adoperati. Dobbiamo affidare noi stessi e tutto il nostro operare a Dio, l’unico che può dare senso e raccogliere frutto dall’impegno che egli ci concede di profondere nella vita della Chiesa.

Il Vangelo ci fa in un certo senso sviluppare il corso della riflessione, poiché per un verso ci fa riscontrare una situazione opposta, di riuscita e di successo, grazie alle guarigioni che Gesù compie, ma per altro verso solleva il sospetto che in realtà dietro ci sia un inganno, anzi addirittura l’opera del demonio. Come per Gesù, così ancor più per noi, dobbiamo mettere in conto che anche il bene che riusciamo a compiere possa essere letto con occhi pieni di malizia e di pregiudizio, e dunque ricondotto a una radice perversa, non a una sorgente di bene e di grazia. Anche questa è un’esperienza che facciamo, di essere cioè giudicati con sospetto perfino quando il bene dovrebbe apparire evidente. Perciò è necessario fortificarci interiormente nella fede e non attenderci che sempre ci sia comprensione, apprezzamento, incoraggiamento, considerazione e benevolenza per ciò che di buono abbiamo cercato di fare.

Al tempo di Gesù, chi non era prevenuto e ostile nei suoi confronti poteva vedere che in realtà lui era il più forte inviato da Dio, il portatore della forza di Dio venuto a lottare e sconfiggere la forza pure evidente del male e del diavolo tuttora operante nel mondo e nella vita delle persone. Ciò che contava allora e conta anche oggi è aprire gli occhi della fede per riconoscere la forza di Dio presente in Gesù e aderirvi in piena fiducia e disponibilità. Ma c’è un monito e quasi un allarme che il Vangelo ci rivolge: la forza di Gesù che vince il male non è acquisita e posseduta una volta per sempre. L’avversario è sempre in agguato ed è pronto ad approfittare di qualsiasi abbassamento della guardia per colpire ancora più duramente e riconquistare un terreno, che è il terreno del cuore, non più solo riportandolo a come esso era prima di incontrare Gesù, ma in una condizione ancora peggiore. Non siamo dunque al sicuro, per il fatto che siamo dei battezzati, che siamo impegnati nella vita della Chiesa, che abbiamo responsabilità in essa, che svolgiamo servizi apprezzati e riconosciuto, e abbiamo titoli di autorità e di onore: nulla di tutto questo ci garantisce e ci esonera dalla prova della tentazione e dalle insinuazioni del maligno. Proprio noi rischiamo di cadere in una condizione peggiore di coloro che, non avendo avuto i doni di grazia di cui possiamo disporre noi, vengono a cercare anche attraverso di noi quell’incontro con Dio che noi abbiamo la grave responsabilità di coltivare diligentemente e accuratamente sempre, come fossimo dei principianti, perché non accada che ciò che raccomandiamo e trasmettiamo agli altri sia alla fine negato proprio a noi che per primi l’abbiamo ricevuto. 

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