Omelia
Giornata dell’unità nazionale e delle forze armate
Messa per la giustizia e la pace (Is 32 e Gv 14), 4 novembre 2022
+ Mariano Crociata
In una giornata come questa il primo pensiero va a tutti i caduti per l’unità nazionale. Soprattutto a quelli della prima guerra mondiale, alla quale in maniera speciale la ricorrenza rimanda. Ma insieme a loro anche a tutti quelli che, nell’altra guerra mondiale e in tanti altri combattimenti pure in tempi di pace, hanno sacrificato la loro vita per la comunità nazionale. Per loro preghiamo, come pure per quegli uomini e donne che oggi prestano il loro servizio nelle forze armate, i quali con il loro lavoro esercitano quel potere di deterrenza destinato a scoraggiare qualsiasi tentativo di intaccare l’unità del Paese e all’occorrenza, speriamo mai, a difendere i confini e l’integrità della nazione.
In un tempo come l’attuale, dobbiamo ammettere che le ricorrenze e le parole assumono un sapore diverso dal solito. Fa un certo effetto sentir parlare di unità nazionale, mentre ai confini orientali dell’Europa le frontiere di una nazione sono state violate e la guerra è stata scatenata senza che nulla riesca a presagirne la fine. Insieme a tutte le violenze e i crimini che vengono regolarmente consumati, pensiamo alle vittime innocenti che hanno dovuto soffrire e che continueranno a soffrire non sappiamo ancora per quanto tempo. Siamo qui a invocare pace ma sappiamo che il suo perseguimento comporta un complesso intreccio di fattori e di volontà. Non ci è consentito, infatti, ricondurre i conflitti esclusivamente a fattori impersonali, poiché tutte le azioni umane hanno all’origine una decisione, un atto di volontà di qualcuno.
Difendere l’unità della nostra nazione richiede un’infinità di misure e di attenzioni, ma non autorizza a chiudersi ermeticamente alle altre nazioni, nell’illusione di isolarsi o di poter contare su una qualche autosufficienza. Dobbiamo promuovere la nostra identità in un clima di relazioni costruttive a tutti i livelli. In questo senso ha molto da dirci quanto abbiamo ascoltato. Innanzitutto dal profeta Isaia, il quale tratteggia un mondo ormai pacificato, quasi una sorta di ritorno all’eden delle origini. Non è un sogno, anche se sognare così aiuta a vivere e a vivere bene. Non è un’utopia, poiché esso si realizzerà. È una promessa di Dio, che tuttavia ha bisogno della nostra adesione e del nostro impegno, poiché Dio non è un mago, ma un suscitatore – un creatore – di volontà di pace e di bene. Senza la nostra volontà e il nostro impegno operoso, nulla Dio potrà realizzare, poiché non ha creato delle marionette, ma delle persone libere. Non possiamo, pertanto, scaricarci delle nostre responsabilità. È di questo che parla il vangelo quando chiede di mettere in pratica le parole che Gesù ci ha lasciato.
E queste parole ci trasmettono, tra altre cose, un preciso invito ad accogliere e comprendere la dipartita di Gesù; quando qui Gesù dice che deve andare via, si riferisce alla necessità e al senso della sua morte in croce, mai separabile dalla sua risurrezione. Ora credere in lui glorificato sulla croce significa anche rimanere o diventare sensibili alla sofferenza dei propri simili, al dolore dell’altro. Ripiegati su noi stessi, sui nostri interessi e sulle nostre preoccupazioni, non vediamo più l’altro che soffre e pena nemmeno quando è accanto a noi. Ci riempiamo la testa di ideologie e di argomenti costruiti appositamente, e non vediamo la realtà attorno a noi, diventiamo ciechi al dramma di tanti o perfino al dramma di tutti.
Abbiamo bisogno di uscire dai nostri schemi, costruiti per giustificare il peggio e non per comprendere la realtà e renderla migliore. Tutti possiamo cadere in questi meccanismi mentali e psicologici. Per questo abbiamo bisogno di uscirne e di tornare a pensare e a sentire come veramente umani, prima che come cristiani. Abbiamo bisogno di un soccorso che ci venga da fuori, che poi trova intima corrispondenza nel nostro cuore. E il primo soccorso è quello dello Spirito di Dio; ce lo dice la prima lettura: «in quei giorni in noi sarà infuso uno spirito dall’alto». E il vangelo promette che «il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa». Abbiamo bisogno di qualcuno che ci illumini, ci parli e ci aiuti a capire che cosa veramente sta accadendo e che cosa è necessario fare.
E poi dobbiamo partire da un’altra pace. È ancora il vangelo che parla: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi». Qual è questa altra pace da cui partire? È quella che ha vissuto e praticato Gesù, mosso dall’amore sempre e verso tutti. Quanto meno dovremmo cominciare dal coltivare la pace del cuore, la pace con se stessi. E infatti il problema è proprio questo, che non siamo in pace con noi stessi. E quando uno non è in pace con se stesso, la guerra che vive dentro non se la può tenere dentro, ha bisogno di portarla fuori e di mettersi contro gli altri, perché tende a proiettare fuori di sé il nemico che si porta dentro.
Voi direte che non è con questi criteri che si può stare nelle forze armate o nelle istituzioni. E questo è vero. Ma il punto non è stravolgere o snaturare le istituzioni o le forze armate, ma che cambino nel cuore gli uomini e le donne che vi operano e vi stanno dentro. Un soldato non diventa una macchina quando fa il suo lavoro di militare. Dobbiamo custodire e curare la nostra umanità, il nostro senso di umanità. Questo modo nuovo di guardare gli altri e di vivere le relazioni umane è in grado di prevenire tanti mali e di condurre a esiti di bene anche conflitti e tensioni. È ciò che vogliamo chiedere oggi nella preghiera e per cui vogliamo impegnarci da ora in avanti.