OMELIA
Veglia di preghiera per la pace
Cattedrale di S. Marco, 3 marzo 2022
+ Mariano Crociata
Giorni fa ho ricevuto una sorta di vignetta, nella quale si collocano in parallelo le città di Kiev e di Mosca in un arco temporale che va dal 996 al 1108. È questo il periodo nel quale sono stati realizzati i più antichi monasteri e chiese della città di Kiev, come il Monastero delle Grotte, il Monastero di S. Michele e la Cattedrale di S. Sofia, menzionata nelle cronache di questi giorni; un’epoca, dunque, di splendore artistico e religioso. In quegli stessi anni il territorio in cui sorge la città di Mosca era ancora foresta inesplorata. Si ha, infatti, notizia di una presenza di villaggi nella regione solo a partire dal 1147. Un accostamento, come si vede, di indubbia eloquenza. Di fatto è a Kiev che porta per la prima volta il cristianesimo il principe Vladimir il Grande, il cui battesimo deve essere stato celebrato intorno al 980. Da lì il cristianesimo e la civiltà si estesero verso oriente, negli immensi spazi della Russia. Perciò il battesimo di Vladimir è considerato da tutta la popolazione cristiana di lingua russa come origine del proprio battesimo.
Ho voluto richiamare questi frammenti di storia solo per mettere in evidenza lo stretto intreccio e rapporto, ma anche la distinzione e l’autonomia, che sussistono tra Russia e Ucraina. Non impropriamente si è parlato in questi giorni di un rapporto tra le due nazioni come tra fratelli, anzi tra gemelli. La cosa fa indubbiamente pensare, considerata l’aggressione violenta che minaccia di schiacciare l’una ad opera dell’altra. È in questa luce che ho ascoltato le letture che sono state proclamate, il cui messaggio, improntato a una carità tenera e radicale allo stesso tempo, non fa solo vedere la distanza dall’ideale cristiano della situazione bellica che è stata creata, ma anche la via che può condurre fuori di essa. Dobbiamo invocare e cercare tale via, consapevoli che le Chiese cristiane, con le loro divisioni interne e delle une con le altre, hanno contribuito e rischiano di alimentare l’incomprensione e l’ostilità che sono all’origine della guerra.
Non è nostro compito, né sta nelle nostre capacità, trovare le condizioni per superare il conflitto e ristabilire la pace; è invece nostro compito dare cuore e voce all’esigenza di trovarla, la pace, al bisogno di porre fine alla violenza fratricida. Quando si tratta di fratelli, la lezione della Scrittura, come dell’esperienza, è spietata. La violenza e l’odio si scatenano infatti più frequentemente proprio tra fratelli. Caino e Abele non sono una favola, ma il ritratto di ogni rapporto tra fratelli. È innanzitutto tra i più vicini, tra i più intimi, che si scatena la rivalità e la lotta. Tra di essi è più difficile che mai volersi bene, ed è invece la regola l’esplodere dello scontro per l’istinto invincibile di prevalere, di affermarsi, di rivalersi. Sembra che la prima forma di affermazione di sé sia quella sul fratello e, se necessario, contro di lui. È l’istinto primordiale a vedere la realizzazione di sé minacciata dal più prossimo, dal più intimo; e quindi a trovare sbrigativamente la soluzione nel prevalere, nel prevaricare, se necessario nel sottomettere e, in ultimo, nell’annientare.
La cosa difficile, e incredibilmente anche per noi cristiani – nonostante la lezione di Gesù e la sua predicazione sul Padre misericordioso –, sta nel superare in noi stessi la paura di non potersi realizzare, di venire umiliati e sconfitti dalla vita per colpa di quelli che ci stanno attorno e sono più vicini (i familiari e i parenti, ma anche i colleghi e tutti i pari grado che sentiamo come concorrenti); la cosa necessaria, anche se pure difficile, è acquisire quella fede che fa sentire tranquilli e sicuri nelle mani di Dio, certi di non dover temere nulla rimanendo in Lui e con Lui. E invece, cerchiamo di conquistare da noi stessi le nostre sicurezze, e siccome quando abbiamo raggiunto una sicurezza subito rispunta la paura di ciò che può esserci dopo a minacciarci (dopo la nazione confinante, quella successiva e poi quella che sta ancora dopo e così via all’infinito), in un circolo vizioso di securizzazione che non si placherà nemmeno quando tutti i potenziali rivali saranno annientati. È una nevrosi senza fine, che produce guerra e devastazioni nelle relazioni corte come nei rapporti tra le nazioni, quando si entra nel circuito mentale della difesa da tutto e da tutti, e dell’affermazione di sé contro chiunque faccia ombra.
È davvero una guerra fratricida quella che è stata scatenata, che può andare avanti all’infinito nella serie di ritorsioni che è in grado di provocare. Dobbiamo sperare che i tentativi di colloqui e di trattative vadano a buon esito. Possiamo lasciarci guidare, nella nostra preghiera e nel nostro desiderio di fraternità risanata, guarita, dalla storia di Giacobbe ed Esaù. Anche qui una storia di fratelli rivali fino a minacciarsi di morte. Ma alla fine, dopo tante lotte e insidie, soprattutto dopo l’incontro con il Signore, Giacobbe decide di mandare messaggeri a Esaù per incontrarlo e portargli abbondanza di doni, placarlo e così riconciliarsi con lui. «Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù, che aveva con sé quattrocento uomini. Allora distribuì i bambini tra Lia, Rachele e le due schiave; alla testa mise le schiave con i loro bambini, più indietro Lia con i suoi bambini e più indietro Rachele e Giuseppe. Egli passò davanti a loro e si prostrò sette volte fino a terra, mentre andava avvicinandosi al fratello. Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero» (Gen 33,1-4). Ci vogliono mente e cuore capaci di rinnovarsi, non bloccati nel voler rimanere impassibili e ostinati, per prendere una risoluzione coraggiosa che porti a compiere i gesti necessari di remissione e di abbandono di ogni intenzione di male.
È ciò che chiediamo per noi ed è ciò che chiediamo per i primi protagonisti di questo dramma che minaccia di travolgerci tutti, e lo chiediamo facendo nostro l’invito dell’apostolo: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,21).