Intervento all’assemblea del clero di fine anno pastorale 2023/2024 (28/06/2024, Curia vescovile di Latina)

28-06-2024

Assemblea del clero di fine anno

Venerdì 28 giugno 2024

Introduzione

+ Mariano Crociata

Nell’introduzione all’assemblea diocesana del 14 scorso, ho cercato di mettere in connessione il cammino di collaborazione, che la nostra Diocesi è chiamata a intraprendere nel quadro più generale del cammino sinodale, con l’identità di fondo della Chiesa come tale, costituita come popolo di Dio e comunità in comunione. La collaborazione è, per noi credenti, molto prima di una tecnica organizzativa, il frutto di un dono spirituale, il versante sociale e relazionale di una identità ultimamente divina, segnata perciò dalla partecipazione alla comunione delle Persone divine.

Oggi vorrei aggiungere un altro tassello a quella riflessione previa e imprescindibile. E lo vorrei fare prendendo le mosse proprio dall’esperienza e dalla natura del ministero ordinato come ciò che più intimamente accomuna noi qui presenti.  Dobbiamo riconoscere che viviamo una fatica, se non una lacerazione, nell’esercizio del nostro ministero. E lo dico volendo non solo rappresentare la percezione di una esperienza soggettivamente, e quindi anche psicologicamente e spiritualmente, penosa, bensì anche un dato più vasto che abbraccia questo aspetto percettivo personale. Mi riferisco al fatto che noi siamo stati formati per una Chiesa (a sua volta dentro una società) che non è più quella nella quale ci troviamo.

Sempre nell’assemblea diocesana accennavo alla divaricazione intervenuta tra la parrocchia della società cristiana o cristianità (la parrocchia tridentina), e quella di oggi. È facile da qui passare dalla considerazione della parrocchia alla considerazione del parroco. Formati per una parrocchia di impianto tridentino, oggi come preti ci troviamo un po’ a disagio, perché la stessa teologia, almeno nella formulazione che reggeva l’impianto sociale entro cui si collocava comincia a vacillare, anzi molto di più, a sgretolarsi. Difficile distinguere ciò che è essenziale da ciò che la cultura del tempo vi appiccica addosso. È certo essenziale la natura peculiare del sacramento dell’ordine nei vari gradi, e precisamente in ordine ai sacramenti, in particolare l’Eucaristia e la Riconciliazione per il presbiterato, e quindi anche il compito di presidenza dell’assemblea liturgica e di conseguenza della parrocchia per uno svolgimento ordinato e in comunione delle sue attività.

Ma, detto questo, attorno al prete parroco sono cambiate molte cose, che costringono a rivedere il modo come finora è stato esercitato il ruolo di presidenza della parrocchia e della stessa assemblea liturgica. Distinguerei quanto si può dire di ciò che è avvenuto all’esterno e di ciò che è avvenuto all’interno della realtà ecclesiale. All’esterno, si direbbe, il mondo si è capovolto, se non altro per il passaggio ormai consumato da una società di impronta prevalentemente cristiana e religiosa a una di tipo secolarizzato e pluralistico. Come abbiamo ripetuto altre volte, siamo passati da una società in cui era naturale, scontato, essere cristiani, a una società in cui la cosa ovvia, ritenuta naturale e scontata, è il non essere cristiani o il non avere alcuna religione o ancora l’averne un’altra.

Le conseguenze di questo passaggio sono enormi rispetto alla mentalità dentro la quale siamo stati formati. Da un punto di vista sociale il compito del prete, ma anche del vescovo per tanti versi, non ha più alcun ruolo peculiare, distintivo. La sua presenza è come quella di chiunque altro. Di più. Alcune caratteristiche del servizio che da secoli il prete ha sempre svolto, quelle di ascoltare, consigliare, sostenere nel cammino della vita, sono ormai diventate prerogative piuttosto di altre figure socialmente perfino più riconosciute e apprezzate, e non parlo solo degli psicologi, ma di tante altre figure che si sono moltiplicate negli ultimi decenni in funzione di un sostegno alla vita personale e sociale. Uno dei segnali per me più impressionanti è il fatto che sono adesso le strutture comunicative di internet e dei social a suggerire di fare, laicamente, mattina e sera, un esercizio che per noi era di preghiera e di meditazione, e ora è solo un modo per fermarsi, concentrarsi, recuperare equilibrio, serenità, energia. Della religione è rimasto ciò che serve ad un benessere il più possibile pieno (piuttosto in senso psicologico) dell’individuo. A noi sembra essere rimasto solo il guscio vuoto di un mondo che non c’è più.

C’è un altro aspetto di questo cambiamento che ci tocca più di quanto pensiamo, e cioè il senso dell’uguaglianza tra tutti e dei diritti di ciascuno. Un segnale vistoso di tutto questo è lo spazio sempre più grande acquisito dalla donna. Accanto a questo, e oltre la semplice uguaglianza, il sentimento, presentato come diritto, di ciascuno di sentirsi come vuole e di essere ciò che vuole, innanzitutto dal punto di vista dell’orientamento sessuale. Da questo punto di vista mi faccio solo una domanda: che cosa significa il celibato oggi in una società di single, che non prendono impegni con alcuno e vivono liberamente la loro sessualità, come del resto tutte le altre scelte della vita?

Si tratta di questioni troppo grandi per avere risposte semplici e sbrigative. Il nostro scontento, le nostre amarezze, il nostro senso di frustrazione e tutto il corredo di stati d’animo che l’accompagna, hanno a che fare con tali questioni di fondo. Le domande vere che stanno dentro di noi non riguardano il modo come si comporta il confratello, o ciò che dovrebbero fare i laici, o il funzionamento delle regole o del diritto canonico nella Chiesa. La questione vera è il senso dell’essere preti oggi. E accanto a questo, più profondamente, il senso della fede oggi. Che cosa significa credere? Perché credere? Vedo la nostra vita minacciata dal non senso, dal senso di inutilità, più che da altre questioni più o meno importanti.

In rapporto a tutto questo ciò che accade all’interno della nostra realtà ecclesiale fa i conti con uno stravolgimento come quello a cui ho accennato. Tutti denunciamo il venir meno di collaboratori, oltre che di praticanti delle messe domenicali. Ma da che cosa pensate che dipenda? Dipende dal fatto che sono sempre di meno le persone che continuano a vivere con la mente dentro un mondo che non c’è più. Quelli che vivono nel mondo di oggi, o non credono o, se credono, cercano qualcosa di diverso dal tipo di Chiesa e di parrocchia che noi pratichiamo e rappresentiamo. E lo cercano come un ambiente in cui avere riconoscimento e accoglienza, e in cui possono stare alla pari con dignità e non come gregari di una organizzazione dove essere solo passivi esecutori.

Sono convinto che molte nostre parrocchie conoscono e offrono spazi di questo tipo, e molte persone crescono con questa consapevolezza e senso della propria e altrui dignità; tuttavia l’immagine consueta che ci troviamo a proiettare delle nostre chiese è quella di una realtà fuori dal tempo. C’è bisogno dunque di un profondo cambiamento. Una delle conseguenze più gravi di questa situazione su di noi preti è determinata dal fatto che, disorientati come siamo per effetto della stanchezza e soprattutto dello stordimento che questo sconvolgimento produce, abbiamo perduto la capacità di essere persone spirituali, cioè uomini di Dio. Su questo bisognerebbe soffermarsi a lungo, ma non possiamo farlo adesso.

Capisco che la perdita della spiritualità rischia di essere molto grave per noi. Non credo di essere lontano dalla realtà se dico che quando qualcuno si accosta a noi non sempre si sente raggiunto da un’aura di spiritualità, di preghiera, quanto piuttosto al massimo da certo senso di unzione o di devozione (anche se pure questo quasi non si riscontra più del tutto), e soprattutto di affanno e affaccendamento per le molte cose che facciamo e che ci sono da fare (e perfino ce ne vantiamo: di quante messe celebriamo, di quante cose facciamo e così via). Dobbiamo ritrovare noi stessi, smettendola di prendercela con il mondo intero, con la Chiesa, con gli altri, e cercando la gioia che viene dalla fede e dal vangelo, dal rapporto intimo e costante con il Signore. Perché è Lui che ci sta guidando in mezzo al deserto. Siamo dentro un esodo e assomigliamo al popolo eletto che si ribella e non capisce che Colui che lo ha liberato è in grado di portarlo verso la terra promessa. E la terra promessa non sta indietro, anche se c’è la nostalgia di come si stava bene prima (poi se era così sarebbe tutto da vedere), ma sta dinanzi, sicuramente davanti a noi anche se non lo conosciamo e non abbiamo nemmeno idea di che aspetto abbia.

Dobbiamo allora cercare di superare almeno alcuni schemi che ci tengono legati, oserei dire incatenati a modelli del passato, schiavi di una mentalità che ci blocca. Dobbiamo metterci in moto interiormente, cominciando ad aprirci agli altri. Le Unità di collaborazione tra parrocchie sono un invito ad aprirci agli altri e a cercare nuove relazioni, ad arricchire le nostre e le altrui relazioni, perché solo da persone vive, contente di vivere e di stare insieme nel nome di Gesù e di aiutarsi come Lui chiede, possono crescere comunità reali di persone credenti, contente ed entusiaste di essere credenti.

Ciò che dobbiamo fare adesso è provare ad avviare questa possibilità nuova di crescita e di aiuto reciproco. È necessario però farlo con cuore aperto e disponibile, con cuore sincero. Perciò nei gruppi di riflessione dobbiamo cercare di rispondere ad alcune domande che scaturiscono dal tipo di esperienza che le Unità di collaborazione tra parrocchie vogliono avviare.

È bene ricordare, infatti, che le UCP vogliono essere uno strumento di promozione e di sostegno tra le parrocchie, un modo per aiutare a far crescere il senso della fede e della fraternità nel nome del Signore fra persone di diverse parrocchie a partire da alcune attività condivise. Bisognerebbe partire da una conoscenza reciproca, valutare gli ambiti importanti di vita ecclesiale nei quali è più difficile avere partecipazione e trovare disponibilità (sulla linea dei 7 ambiti indicati), provare a coordinarsi per avviare una iniziativa il più possibile di qualità e cominciare affidando a qualcuno la responsabilità di coordinare e coinvolgere fedeli delle diverse parrocchie dell’Unità.

È questo un esempio di iniziativa in una UCP. A partire da esso si tratta ora di fare un lavoro di confronto e di proposta per raccogliere alla fine il maggior numero di indicazioni possibili per avviare l’esperienza delle UCP.

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