Incontro pubblico di Forum 015 con il Vescovo (03/07/2018 – Latina)

03-07-2018

Una visione condivisa per il futuro – I cattolici nelle organizzazioni per lo sviluppo della comunità

Convegno di Forum 015

Latina, 3 luglio 2018

+ Mariano Crociata

Dove sono i cattolici oggi

In occasione delle recenti elezioni parlamentari diversi commentatori sono tornati a chiedersi dove sono finiti i cattolici in politica. Non richiamo questa circostanza perché voglia parlare di politica, ma perché il caso è esemplare per una domanda che potrebbe essere posta anche in riferimento ad altri ambiti della vita pubblica. Dove sono finiti i cattolici? Ci sono ancora dei cattolici? È chiaro che la domanda tocca la dimensione pubblica della vita sociale, ma è difficile separare da quella pubblica la dimensione privata. Se le convinzioni più profonde di una persona non hanno nessuna forma di manifestazione esteriore, allora vuol dire che anche nella coscienza di quella persona le convinzioni non sono forse veramente tali e tutto sono tranne che profonde. Dobbiamo riconoscere che il problema esiste, anche se non mancano alcune rare figure di cattolici esemplari per coerenza personale e per capacità di testimonianza pubblica. Dei più si presume e si dice che lo siano.

Perciò la domanda ulteriore diventa: chi è cattolico? Che cosa è cattolico? Lo sappiamo tutti che il termine significa intero, integro, secondo la totalità. La fede è cattolica perché aperta e capace di abbracciare tutti, ha una destinazione universale, si estende a popoli e nazioni di ogni angolo della terra, ma soprattutto interessa e coinvolge tutto l’uomo, raggiunge tutte le dimensioni dell’essere umano, lo apprezza e lo promuove per intero, in tutti i suoi aspetti. Cattolico è chi cerca il bene di ogni persona e di tutta intera la persona secondo il disegno di Dio in Cristo.

Non è facile trovare cattolici in giro perché si è perduto il senso di ciò che rende tali. Così dicendo, non intendo opporre il discorso su una confessione a quello su altre. Faccio semplicemente un discorso ‘cristiano’, nel senso che ogni cristiano si sente cattolico, ha un ideale inaudito, vuole essere cioè imitazione e ripresentazione di Cristo. Del resto è quanto ci dice il Vangelo. Per esempio là dove Matteo fa dire a Gesù: «siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (5,45). E poi, nell’ultima cena, le parole sul sangue chiariscono che esso è «versato per molti per il perdono dei peccati» (26,28), dove molti indica la moltitudine dell’umanità. C’è dunque una intrinseca apertura universale nella parola e nella vita di Gesù, perché Dio, suo padre personale, è l’unico Dio e il Dio di tutti e di ciascuno; nessun credente, nessun seguace può essere tale se nega o tradisce questa apertura che non è solo numerica e spaziale, ma qualitativa ed essenziale, fraterna e solidale, senza esclusioni di sorta.

Oggi assistiamo ad un fenomeno che non è di ora, ma che solo ora vede consumare tutte le implicanze della sua lunga gestazione: il divenire fatto sociale culturalmente legittimato di quella separazione che è alla radice di ogni tradimento della fede cristiana, e cioè la separazione tra fede e vita, ovvero la riduzione religiosa ritualizzata della fede e la secolarizzazione etica e valoriale della vita. Questo ormai non è più soltanto il risultato deprecabile di una religiosità a bassa intensità e di un’etica lassista e debole; è invece una condizione motivata da elaborazioni ideologiche e scelta con una opzione ammantata di un’aura di razionalità e di imparzialità anch’essa ormai del tutto fuori tempo. È stato il protagonismo di altre religioni (quelle degli immigrati), in Italia e altrove, a costringerci a scoprire che non è solo normale riconoscere pubblicamente il ruolo delle fedi e delle religioni nella vita delle persone e delle società, ma soprattutto cercare di recuperare la dignità del nostro essere cattolici, avvertire l’urgenza di sapere di nuovo chi siamo o, quanto meno, chi e che cosa vogliamo essere. Qualcuno lo scrive e io stesso lo evoco senza animosità e, ancora di più, senza nostalgie retrospettive: se in Occidente le cose sembrano messe così male – e non voglio immaginare, per esempio, che cosa potrebbe succedere alle prossime elezioni europee – non è per questioni innanzitutto economiche e finanziarie, ma perché esso è malato di astenia spirituale e quasi nessuno lo vuole riconoscere. C’è come una deriva spirituale autolesionistica se non eutanasica che attraversa il continente; si fa fatica a pensare al futuro, a fare progetti, a guardare avanti con la voglia di costruire qualcosa di importante e di duraturo; ognuno sembra ripiegato a difendere il proprio fazzoletto di terra e il proprio gruzzolo, incapace di vedere che un uragano potrebbe spazzare tutto via d’un tratto.

Qualcuno ha deciso che per vivere bene e comodamente la cosa migliore sia non avere coscienza, ideali, sogni, progetti, fedi; di queste cose eventualmente si parli e si tratti in privato, la vita pubblica non ha bisogno di ideali, di valori, di senso, bastano regole e procedure a far funzionare la macchina, salvo poi accorgersi che senza il carburante dei valori, degli ideali, del senso, regole e procedure non bastano perché vengano rispettate, il motore non gira più e la macchina non va avanti.

Capite bene che tale atteggiamento non è solo dei cattolici e non riguarda loro soltanto, poiché esso delinea un disagio spirituale che affligge tutti (tra parentesi osservo che il caso dell’Europa è esemplare in tal senso: qualcuno vorrebbe farci credere che un’Europa priva di ideali e di progetti condivisi, priva di una idea di futuro, senza un’anima spirituale, possa andare avanti con le sole regole economiche e le leggi che guardano ai diritti individuali sradicati da un senso di umanità e di solidarietà che solo alimenta il desiderio di vita e la voglia di futuro). I cattolici tuttavia hanno – abbiamo – una risorsa da mettere a disposizione di chiunque, e cioè l’esperienza e l’idea di interezza, di integrità, di unità e di universalità che ho richiamato. Ma per offrirla agli altri bisogna che la recuperiamo pienamente noi per primi. E questo esige, evidentemente, un processo di cambiamento interiore e di riforma esteriore, negli orientamenti del nostro modo di pensare e nello stile della nostra prassi. Qui ognuno deve esaminare se stesso e aprirsi alla condivisione di un esame di coscienza comune che solo può arrestare questa corrente di degrado spirituale e morale, a cui non pochi sanno resistere senza lasciarsi trascinare ma che dovrebbe vedere noi in prima linea in un movimento di rinnovamento profondo e quasi di rinascita.

 

Perché occuparsi degli altri

Ci vuole un punto interiore di incontro tra la nostra coscienza (magari confusa) e la gestione della nostra esistenza con le sue incombenze e le sue preoccupazioni, se vogliamo essere credenti cattolici. Tale punto di incontro è la fede pasquale, cioè la fede che riconosce nel Cristo che muore e risorge la radice del bene e della salvezza. Fede pasquale significa che finché releghiamo tutto a qualcuno che dall’esterno venga a risolverci ogni problema senza alcuno sforzo da parte nostra o, al contrario, pensiamo di potere risolvere tutto noi con i nostri sforzi e la nostra buona volontà, non cambierà molto. Ci vuole fiducia sincera in Dio, disponibilità alla sua grazia e, con questa risorsa, impegno serio e generoso a farci carico delle nostre responsabilità: queste cose vanno insieme e sono necessarie tutte quante.

È a questo punto che dobbiamo chiederci: quali sono le nostre responsabilità? Per troppo tempo – un tempo che qualcuno di noi ha conosciuto – la religione ha ruotato tutta intorno alla salvezza dell’anima e, alla fine dei conti, della mia anima. Senza volerlo, siamo stati educati anche in ambito religioso a farci i fatti nostri, nel senso deteriore dell’egoismo giustificato perfino religiosamente. Se bisognava comportarsi bene, era per salvarsi l’anima, non per cercare il bene mio, dell’altro, di tutti (anche se, non bisogna dimenticarlo, tante generose opere sociali sono nate proprio in epoca di individualismo salvifico!). Con l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII, la nascita di quello che sarà chiamato l’insegnamento o la dottrina sociale della Chiesa permetterà di dare respiro sociale concreto ed efficace al senso cristiano dell’esistenza personale e comunitaria. L’impegno sociale diventa parte integrante ed espressione necessaria dell’ansia della fede per la salvezza non solo di se stessi ma anche del prossimo, degli altri accanto a noi e pure lontani da noi. Gli sviluppi di tale insegnamento hanno condotto fino ad un oggi che vede, con la Laudato si’ di papa Francesco, la fede cristiana farsi carico della responsabilità non solo dei problemi sociali ma anche del dramma della casa comune, di quel creato che dovrebbe essere un giardino per una umanità riconciliata e invece appare sempre più ridotto ad una discarica di rifiuti di ogni genere per un uomo diventato schiavo e isolato. La responsabilità che il cattolico sente e sa di avere è per la persona umana in tutti coloro che incontra e nella totalità delle sue dimensioni, materiali, psichiche, morali e spirituali.

Con la dottrina sociale il senso cattolico della fede riprende pienamente respiro, restituendo quell’interezza e quella totalità che è la sua dimensione costitutiva. Così si comprende perché un cattolico deve impegnarsi negli ambiti del sociale, ma anche come farlo, alla ricerca di un bene complessivo e integrale che si racchiude nella formula “ecologia integrale” (LS 137), da cui si coglie che cura della persona e cura dell’ambiente vanno di pari passo. L’istinto cattolico, se così possiamo esprimerci, va dunque sempre nella direzione dell’apertura e dell’incontro nella società e con tutti; non resiste troppo a lungo dentro un orizzonte privato e intimistico; ha bisogno dei larghi spazi di relazioni autentiche, che non escludano mai i più disagiati ed emarginati.

 

Impegnarsi nelle organizzazioni

Impegnarsi nel sociale è innanzitutto una responsabilità del singolo e può essere attuato in diverse forme. Tuttavia la modalità non solo più efficace ma anche più rispondente alla natura di un impegno di azione sociale, è quella che vede aggregarsi persone accomunate da medesimi interessi, attività, obiettivi. È da questo che sono nate anche le vostre organizzazioni. È a tal punto importante aggregarsi, che da alcuni anni esse hanno sentito l’esigenza di coordinarsi nel Forum 015 (eco di altri coordinamenti nazionali), per rispondere meglio alle sfide delle trasformazioni in atto nella società e nella cultura, nel mondo del lavoro, negli ambiti di intervento della nuova legislazione e degli sviluppi della tecnologia. Sapete bene che le vostre organizzazioni non si sono costituite soltanto per tutelare degli interessi comuni, ma anche per creare solidarietà sociale a partire da una categoria o attività, elaborando una visione della società e adoperandosi per promuoverla. Nel far parte di una organizzazione si vengono ad alleare, per così dire, una coscienza credente e un impegno personali, e l’adesione ad una associazione di cui condividere ispirazione ideale, obiettivi comuni e forme di collaborazione e di coordinamento; soltanto con questo patrimonio morale una aggregazione diventa un soggetto collettivo in grado di promuovere azioni efficaci per il miglioramento delle condizioni di vita dei propri membri e della collettività intera.

Per assicurare questi obiettivi sono necessarie alcune condizioni.

La prima delle quali è la formazione personale. Senza una adeguata presa di coscienza e una adesione convinta di ciascuno sarà difficile costruire organizzazioni capaci di iniziative efficaci nelle piccole questioni come nelle grandi. Qui il riferimento alla dottrina sociale della Chiesa è d’obbligo, con i suoi principi di bene comune, destinazione universale dei beni, sussidiarietà, partecipazione, solidarietà, valori fondamentali della vita sociale come verità, libertà, giustizia (cf. il Compendio della dottrina sociale della Chiesa).

Una seconda condizione è la partecipazione alla vita dell’organizzazione e attraverso di essa della società, una esigenza in controtendenza di questi tempi. Partecipare vuole dire avere coscienza di una responsabilità nei confronti della collettività, dalla quale non solo attendere ma anche dare. Partecipare vuol dire passare dalla protesta sterile o dalla rivendicazione arrogante e unilaterale dei propri diritti alla ricerca comune del rispetto dei diritti di tutti, o del maggior numero possibile, compresi anche noi. Partecipare vuol dire confronto e discussione per pervenire a visioni e scelte condivise, capacità di orientarsi nella complessità della vita di oggi formandosi un giudizio competente e concorrendo a determinare scelte opportune da parte dell’organizzazione nei confronti dell’intera dinamica sociale. Si tratta di capire che la collettività e il suo andamento non è affare d’altri, ma mio, nostro. Partecipare significa contrastare la tendenza al disfattismo e la tentazione del menefreghismo con la coscienza e la volontà di chi ha a cuore il bene della propria città, del proprio territorio e oltre, fino ad abbracciare la comune umanità, dai destini ormai inseparabili in un mondo globalizzato e interconnesso, in cui tutto si ripercuote su tutti.

Se sono assicurate queste premesse, allora potrà nascere anche una nuova politica. Non parlo immediatamente della politica politicante, nelle amministrazioni o in altre sedi. Parlo della politica come sforzo di acquisire una visione d’insieme e di agire dentro il tessuto sociale perché la comunità nella sua interezza trovi risposte alle proprie attese e realizzazione dei propri progetti. Una organizzazione ha gli strumenti e le potenzialità necessarie per diventare soggetto promotore di opinione, di proposta, di iniziativa, di realizzazioni. Non ci si deve limitare ad attendere ciò che le istanze superiori dovrebbero offrire o garantire, è necessario trovare gli spazi e le forme per intervenire e agire, innanzitutto creando opinione e costruendo coesione sociale.

Quest’opera, ed è la terza condizione, comincia e si spende innanzitutto nel territorio, in questa città e nella sua provincia. Non ci vuole molto a elencare i problemi, a denunciare le carenze, a puntare il dito contro le inadempienze. Bisogna provare ad aggirare l’ostacolo da un’altra parte, indicando ciò che si può fare e mettendosi a disposizione per favorirne la realizzazione. C’è bisogno soprattutto di una idea di città e di provincia, di sapere che territorio vogliamo essere e costruire, confrontandoci lealmente e senza presunzione, ma nemmeno sudditanza, con chi ha un’altra idea o un altro progetto. Qui sta la vera politica, nel confronto tra visioni diverse del bene della collettività per pervenire ad una sintesi, almeno ad un qualche punto di incontro e di realizzazione, uscendo fuori da quella logica politica di infimo livello, se non spregevole, secondo cui una cosa buona deve essere detta cattiva perché non sono io a dirla per primo e farla da solo. Ci vuole cuore per volere il bene della propria città e della propria gente, altrimenti si diventa speculatori o sciacalli sulle spalle delle fasce più deboli della collettività, le quali sono condannate a star meglio solo quando i furbi e i potenti hanno finito di fare i loro comodi e qualcosa riesce perfino a farsi e a migliorare per tutti.

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