Emarginazione e persone – relazione congresso CISL Latina (09/03/2017 – Sabaudia)

11-03-2017

Emarginazione e persona

XVIII Congresso provinciale della CISL

Sabaudia, 9 marzo 2017

+ Mariano Crociata

Volendo parlare di “Emarginazione e persona”, con particolare riferimento alla condizione degli immigrati, potrebbe apparire sufficiente riferirsi alla dottrina sociale della Chiesa per ribadirne l’affermazione di principio secondo cui la persona è creatura a immagine di Dio (cf. Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, 2004, nn. 108-114); oppure, per chi ha un orientamento religioso o filosofico differente e in generale per tutti, potrebbe risultare adeguato il rimando alle tante dichiarazioni dei diritti umani, a cominciare da quella dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 10 dicembre 1948, che nel suo articolo primo recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza».

Avendo detto questo, tuttavia, e dopo averne eventualmente sviluppato la spiegazione nella maniera più esauriente, non avremmo fatto progredire di molto la nostra comprensione della situazione, che vede conculcata in innumerevoli modi tale affermazione di principio pressoché in ogni regione della terra. Se non vogliamo limitarci a enunciazioni astratte e a petizioni di principio, abbiamo bisogno di avviarci su un percorso che cerchi di capire le cause che portano alla cancellazione o almeno all’oscuramento della dignità della persona umana, al fine di individuare piste di possibile contrasto se non di soluzione.

L’assunto da cui muovo è semplicemente che le cause di tale situazione hanno in comune una radice spirituale, morale e culturale. Vorrei provare a richiamare alla comune attenzione – senza alcuna pretesa di completezza – alcuni fenomeni che giustificano tale assunto.

Il primo di essi ai quali vorrei riferirmi riguarda l’atteggiamento di alcuni settori della società italiana – analogamente, del resto, a quelli di altre nazioni europee – di razzismo o anche solo di rifiuto nei confronti degli stranieri (talora alimentato da inadeguatezza della legislazione, delle misure di gestione del fenomeno e di regolamentazione delle condizione di presenza e inserimento nel nostro paese). Un meccanismo da cui origina tale atteggiamento scaturisce dall’insicurezza non solo materiale circa la propria situazione e il proprio futuro. C’è alla base un senso di paura e di minaccia incombente che spinge a difendersi e a chiudersi di fronte al nuovo, allo straniero e al diverso. Il paradosso è dato, in questo caso, dal fatto che l’Italia viene riconosciuto come uno dei paesi più accoglienti anche solo a confronto con quelli europei. La prima accoglienza soccorre da anni, ormai, decine e decine di migliaia di persone anche solo in transito vero altre mete. Anche in questo caso la paura si rivela cattiva consigliera innescando meccanismi che finiscono con il contraddire una generosità instancabile e una accoglienza che è dimostrata dalla presenza di oltre cinque milioni di stranieri nel paese.

Un altro fenomeno che voglio richiamare è il calo del tasso di natalità. Leggo sul portale dell’ISTAT: «Nel 2015 le nascite sono state 488 mila (-15 mila), nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia. Il 2015 è il quinto anno consecutivo di riduzione della fecondità, giunta a 1,35 figli per donna ». Qui entrano in gioco molteplici fattori, tra cui non ultimo la crisi economica. Tuttavia non aiuterebbe a capire quanto sta avvenendo ignorare il senso di insicurezza, di mancanza di fiducia nel futuro, di perdita della speranza di poter costruire qualcosa nella propria vita e quindi l’assenza di prospettive progettuali, che entrano in gioco in simile questione. Sussiste il pericolo di un ripiegamento egoistico sul presente e sul proprio godimento del tempo della vita, rinunciando a un compito fondamentale di tutte le generazioni, quello di generare ed educare. Non sono estranei a questi aspetti decisivi delle dinamiche sociali, cultura e atteggiamenti che osservatori come gli psicologi definiscono di tipo narcisistico.

Un terzo fenomeno, che consiste nel riverbero pubblico di tale ripiegamento egoistico su di sé e che esprime insaziabile avidità, è quello della corruzione, a cominciare dagli apparati della pubblica amministrazione, e la diffusa illegalità. L’Italia vanta, quanto a corruzione, tristi primati, visto che occupa il sessantesimo posto nella classifica compilata da Transparency International 2016, dopo Romania e Cuba. Un malcostume diffuso e una legislazione pletorica, oltre che una burocrazia asfissiante, fanno disperdere nelle peripezie di tortuosi percorsi amministrativi tante buone intenzioni ed ingenti risorse.

Infine, l’affermarsi di quello che viene chiamato tecno-capitalismo riduce il soggetto umano a produttore e consumatore di beni che assorbono spesso l’intera dinamica della vita personale e sociale. Esso ha un riflesso immediato ad un livello di relazioni sociali diffuse, ma conosce processi di degrado generale e di condizionamento strutturale. Uno di questi è senza dubbio quella che viene chiamata la finanziarizzazione dell’economia, in forza della quale arricchimento o impoverimento non dipendono da fattori economici reali, ma da manovre di investimento e spostamento di capitali e da sofisticate operazioni di transazione. Tra gli economisti si discute sulle origini della crisi ancora in corso, ma è indubbio che la tecnica finanziaria ha avuto e mantiene un ruolo scatenante nei confronti della crisi economica dentro cui siamo ancora in pieno. La sensazione di essere in balia di meccanismi impersonali incontrollabili è molto forte e l’effetto alienante corrispondente.

Tutto questo, che ho riferito in termini di mera esemplificazione, rispecchia solo una parte della realtà. Rispetto ad essa conosciamo una presenza non trascurabile di correttezza e legalità, di laboriosità e di volontariato, di solidarietà e di generosità. Ma proprio perché non mancano questi aspetti positivi e promettenti appare ancora più evidente il processo di alienazione e di spersonalizzazione a cui sono sottoposte vere e proprie masse non solo di stranieri ma anche di nostri concittadini, per non dire che tutti ne siamo, in un modo o in un altro, pesantemente condizionati. Ci scopriamo allo stesso tempo vittime e carnefici del male che vediamo e pure condanniamo. Siamo perduti dentro quelle che Giovanni Paolo II chiamerebbe “strutture di peccato”, che ci costringono ad alimentare meccanismi perversi dal punto di vista del funzionamento della vita sociale e delle sue istituzioni; ma così facendo siamo proprio noi a tenere in vita e a rafforzare quei meccanismi.

Mettere in opera regole e procedure che assicurino un crescente rispetto delle persone, in qualsiasi condizione sociale e culturale versino, è uno dei compiti a cui non pochi a tutti i livelli lodevolmente si dedicano. Constatiamo purtroppo come la stessa elaborazione di regole e procedure non rispetti però sempre l’esigenza di imparzialità e di universalità richiesta, ma risenta dei rapporti di forza e del confronto tra interessi contrastanti. Pertanto è necessario accompagnare all’impegno politico-istituzionale di adeguare i meccanismi regolativi della convivenza alle esigenze sempre più complesse della società, alcuni compiti che mirino soprattutto all’educazione delle persone e al rafforzamento dell’ethos collettivo.

Un primo compito consiste nel promuovere conoscenza, nelle scuole e nelle più diverse sedi della vita associata. Conoscenza da parte di noi italiani delle culture e delle religioni, oltre che delle persone che vengono da altri paesi. E prima ancora conoscenza della situazione del nostro paese e delle sue fasce sociali più deboli non solo per effetto di un interesse politico ma soprattutto come espressione di una coscienza civica. E poi anche conoscenza da parte degli stranieri della lingua, della cultura, a partire da quella civica e istituzionale consegnata nella carta costituzionale, come pure della storia e delle tradizioni del nostro paese.

Un secondo compito è quello che promuove e incoraggia attività di volontariato e iniziative di solidarietà: la convivenza e il rispetto delle persone si imparano agendo, impegnando sul campo le proprie competenze e investendo le proprie possibilità. Si tratta di un agire un maniera solidale, di promuovere reti e gruppi di azione.

Il terzo compito consiste nell’apprendere e nel praticare uno stile di dialogo in tutte le relazioni interpersonali. Non si può pretendere di saper dialogare con persone di altre culture e religioni se non sappiamo dialogare tra di noi. Viviamo in una società plurale: una realtà che rischia di evidenziare l’estraneità che tante volte esiste anche tra noi italiani. La diversità e l’estraneità cominciano tra di noi e poi si sviluppano anche con gli stranieri. Il dialogo è la risorsa per affrontare la complessità in una società di uguali e diversi, per rispettare e far incontrare le differenze e per cercare un equilibrio e una armonia che tenda ad una giusta uguaglianza e all’accoglienza della dignità di ciascuno.

Infine ci vogliono motivazione e ispirazione: ci vuole qualcosa che spinga interiormente ciascuno verso una tale prospettiva di vita e di impegno. Ognuno conosce le proprie risorse interiori: esse vanno cercate e coltivate con cura. Per molti di noi la risorsa per eccellenza è la fede e il Vangelo che la alimenta. C’è una parabola che, anche a considerarla solo a un livello umano, può offrire stimolo adeguato a un pensiero positivo e alla fiducia nell’altro. La troviamo al capitolo 18 del Vangelo secondo Matteo:

23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.

Il tema e l’obiettivo della parabola è il perdono reciproco. Esso suppone però una sensibilità d’animo che è ben espressa dalla domanda contenuta nel testo: non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? Avere pietà, compassione, comprensione è il motore delle relazioni umane. Abbiamo bisogno della capacità di immedesimarci. La durezza di cuore del servo sta nel non percepire e tenere vivi nel proprio animo quel bisogno e quell’angoscia che lui stesso aveva sperimentato di fronte al padrone e che ora è il compagno che gli sta dinanzi a soffrire. L’insensibilità e l’indifferenza sono una forma di spietatezza che rende impermeabili al bisogno e alla sofferenza dell’altro. Ma attenzione: quando si entra nel tunnel di tale condizione spirituale e morale, nessuno, nemmeno le persone più care, viene risparmiato.

Ancora il Vangelo, allora, ci può indicare una via maestra di umanizzazione, quando ci riporta la regola aurea che i più antichi codici morali dei popoli possedevano nella coscienza condivisa prima che nelle codificazioni formali e che Gesù porta a pienezza con il dono di sé prima che con le sue parole. La troviamo nella pagina del Vangelo di Matteo che proprio la liturgia odierna ci presenta: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12). Se all’immedesimazione uniamo uno sforzo di rispecchiamento, forse ci metteremo su una strada che conduce al riconoscimento della dignità di tutti e di ciascuno, a cominciare da quelli che sono più disgraziati e provati dalla vita.