Il mandato ai ministri e collaboratori pastorali: «Chiamati a ricevere l’invio dal Padre e a partecipare alla missione di Cristo»

Ieri sera, nella cattedrale di San Marco a Latina, il vescovo Mariano Crociata ha presieduto la celebrazione per il Mandato ai ministri e collaboratori pastorali.
Prima delle celebrazione, il Vicario generale, mons. Mario Sbarigia, a nome di tutta la comunità diocesana ha rivolto un augurio al vescovo Crociata per i suoi dieci anni di ordinazione episcopale (6 ottobre 2007).
Al termine della celebrazione è stata distribuita ai fedeli la Lettera “Il primo passo di Una Chiesa che cresce, che riprende sempre l’attuale orientamento pastorale. Per scaricarla clicca QUI

Di seguito l’omelia tenuta da monsignor Crociata durante la Messa:

«Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato». La parola ‘mandato’ che abbiamo così udito risuonare nel Vangelo del giorno traduce dal verbo greco ‘apostello’, da cui deriva il termine ‘apostolo’. Qui il verbo viene usato nel suo significato originario, non in quello tecnico che lo riferisce esclusivamente agli apostoli. Del resto il vocabolario neotestamentario, primo fra tutti quello paolino, applica il titolo anche a personaggi che non appartenevano alla cerchia dei dodici, primo fra tutti lo stesso san Paolo. Da osservare è invece che il nostro Vangelo lo riferisce a Gesù stesso. Gesù è il vero primo apostolo, l’apostolo per eccellenza, perché l’apostolo del Padre.

C’è una catena – diciamo pure apostolica – che fa risalire fino al Padre, e l’anello fondamentale di questa catena è Gesù, il primo inviato perché l’inviato di Dio al suo popolo e all’umanità intera. Solo in forza di questo collegamento che risale a Dio trova posto la missione di ciascuno di noi, la mia e la vostra. Apostolato, missione, invio: si tratta sempre della stessa cosa, e cioè del fatto che si danno eventi come l’annuncio della parola, il sorgere della fede, la grazia sacramentale, la carità fraterna, e così via, solo perché qualcuno ha preso l’iniziativa di chiamare e inviare, e qualcun altro ha accolto la chiamata e si è reso disponibile a rispondere. E colui che ha preso l’iniziativa è Dio stesso: senza la sua iniziativa e senza il suo invio del Figlio non esisterebbe niente del cristianesimo, nessun apostolo e nessun mandato.

Oggi, nella nostra celebrazione, troviamo una sorta di ripresentazione concreta della catena della missione, perché c’è il successore di quegli apostoli che hanno ricevuto immediatamente da Cristo il mandato missionario, ci sono i collaboratori nel ministero, presbiteri e diaconi, ci sono i ministri istituiti, lettori e accoliti, ci sono i ministri di fatto e tutti i collaboratori che con il loro servizio ecclesiale assicurano alla missione ecclesiale di essere prolungata nel tempo ed estesa a fasce sempre più vaste di persone. Noi tutti esistiamo, dunque, perché siamo stati chiamati e mandati. Prima ancora, perché qualcuno è stato mandato a noi per annunciare la parola, suscitare la fede, accogliere la nostra risposta e conferirci la grazia del sacramento, primo fra tutti il battesimo. Anche se eravamo infanti quando siamo stati battezzati, lo siamo stati perché qualcuno è stato mandato a noi e noi, sia pure per interposta persona, abbiamo detto il nostro sì, abbiamo risposto. La nostra vita e la nostra storia è, poi, una sequela interminata di sì, di risposta a qualcuno che non ha finito di essere mandato a noi.

Se siamo qui, però, vuol dire che pure noi siamo stati chiamati e mandati a ricevere l’invio dal Padre e a partecipare alla missione di Cristo. In forme diverse e con un grado diverso di responsabilità, questo oggi in modo particolare ci accomuna. Siamo tutti degli inviati, nessuno si è mandato da sé. E se qualcuno pretende di potersi dare l’incarico della missione cristiana da solo, allora vuol dire che è fuori della grazia di Dio e fuori di testa. Perché la missione non è nostra, ma di Dio. Noi siamo servitori e collaboratori, tutti, anche se non tutti allo stesso modo e allo stesso titolo. Quello che dobbiamo sapere è che c’è qualcuno a cui dobbiamo rispondere del nostro essere stati chiamati e mandati. Non è una cosa che mi posso gestire arbitrariamente tra me e me, per i fatti miei; è qualcosa di cui devo rispondere, e non solo al parroco o al vescovo, ma ultimamente a Cristo e al Padre. Dobbiamo ricordarcene quando assumiamo un compito o una responsabilità, e quando li lasciamo.

Le letture di oggi ci trasmettono almeno altri due messaggi importanti su tali questioni. Il primo è contenuto nel Vangelo. Corazin, Betsaida e Cafarnao sono cittadine della Giudea del tempo di Gesù. Il loro rifiuto non ha lo stesso significato dell’eventuale rifiuto di una città pagana, perché esse conoscono Dio, la sua legge, la memoria della liberazione dalla schiavitù, i profeti e i saggi, e così via. Non conoscere e non avere l’annuncio, essere pagani, come si diceva una volta, non è una colpa. Diventa una colpa, invece, essere cristiani, battezzati, con tutte le grazie che l’appartenenza ecclesiale comporta, e non accogliere l’appello del Signore, come è stato il caso di molti contemporanei e connazionali di Gesù. Non è senza conseguenza il non ascolto del richiamo del Signore. Dobbiamo allora ricordarci che il nostro ascolto è un compito che non finisce mai, perché il Signore sempre ci parla e sempre vuole essere ascoltato. Per questo il Signore oggi ci ammonisce con le parole insistenti di Baruc che dice: «ci siamo ostinati a non ascoltare la sua voce».

C’è da chiedersi perché tanti nostri fratelli battezzati non ascoltano più l’invito del Signore e l’appello della sua parola e della sua volontà. Non dobbiamo dare risposte sbrigative e soprattutto non dobbiamo avere fretta di giudicare. Dobbiamo invece chiederci qual è la nostra parte di responsabilità, la mancanza di noi che siamo stati mandati. Che ascoltatori siamo stati e che tipo di annunciatori si sono trovati di fronte coloro a cui siamo stati inviati? Queste sono le domande che dobbiamo farci. La preghiera di confessione e di riconoscimento di colpa di Baruc probabilmente ci tocca molto più di quanto pensiamo, perché dovrebbe essere rivolta al Signore anche da noi. Tanti cristiani sono, come Baruc e i suoi compagni, degli esiliati, fuori dalla terra promessa. E anche noi rischiamo di finire in terra straniera e di esilio non tanto per la nostra pratica religiosa, quanto per la lontananza sostanziale da Dio del nostro cuore e della nostra pratica di vita. In questa occasione e in questo modo, dunque, il Signore ci vuole indirizzare un forte richiamo.

Un richiamo che avverto con particolare intensità oggi rivolto anche a me. Ho voluto questa coincidenza con il decimo anniversario della mia ordinazione episcopale per condividere con voi la preghiera di ringraziamento e di supplica. Il timore e il tremore prendono posto sempre di più in me con il passare del tempo; il senso del limite e delle inadempienze e quello della grandezza della responsabilità affidata si intrecciano ottenendo un effetto drammatico. Quello che posso attestare è che il senso della chiamata e dell’invio è in me molto netto. Devo dire con tranquilla coscienza che nulla ho scelto di ciò che mi è stato chiesto di fare, a partire dalla elezione episcopale. Questi dieci anni sono stati a dir poco alquanto movimentati, ma nulla ho scelto o cercato di ciò che mi è stato chiesto; piuttosto ho deciso di scegliere e di abbracciare ciò che mi veniva via via chiesto, non ultimo essere vostro vescovo.

Su queste premesse, posso ora davvero cercare ancora di più di compiere la missione di Dio e di Cristo, perché non è la mia missione, come non lo è di nessuno di voi. È il Signore che vuole agire attraverso di me e di voi. Dobbiamo cercare in tutti i modi di assecondarlo e favorirlo, secondo le nostre piccole o grandi responsabilità. Questa comunanza missionaria ha ora un compito specifico, che quest’anno ci siamo dati non a capriccio ma rispondendo, anche qui, a una chiamata, a un discernimento lentamente maturato in mezzo a noi: costruire comunità rinnovate, con la grazia di Dio e con al centro Cristo, questo sentiamo essere il volto della nostra missione oggi. E i motivi sono evidenti: fare Chiesa è ciò che il Signore in primo luogo chiede a tutti i credenti in lui; poi, essere Chiesa viva è l’annuncio e la testimonianza più adeguata a far giungere la parola del Signore a tutti coloro ai quali siamo inviati; infine, impegnarci a costruire vere comunità è il modo migliore per rispondere alla parola del Signore rivolta a noi e – perché no? – per chiedere al Signore, come Baruc, la misericordia e tramutare la nostra sordità in apertura del cuore e in gioia nell’aderire e accogliere il dono di Dio. Questo ho cercato di richiamare nella Lettera pastorale e nella Lettera su Il primo passo che vi sarà distribuita alla fine.

Il cammino che si apre dinanzi a noi è carico di speranza, perché è sincera la nostra coscienza penitenziale e salda la nostra fiducia in Dio, che guida la nostra Chiesa e dalla nostra comunione saprà trarre frutti di santità e nuova fioritura apostolica e missionaria.