OMELIA
Veglia di Pentecoste
Cattedrale di San Marco, 27 maggio 2023
+ Mariano Crociata
Molte sono le immagini che Scrittura e Tradizione adoperano per parlare dello Spirito Santo: il soffio, il respiro, il vento, il fuoco, l’acqua sono solo alcuni; e molti i doni che svelano la sua azione, come i classici sette o come quelli che in Galati formano il frutto dello Spirito: «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (5,22). Dove c’è respiro, dove c’è fuoco, lì c’è lo Spirito; come pure dove c’è amore, gioia e pace.
Non è facile trovare persone dal respiro vasto del cuore e dei pensieri, da un cuore riscaldato dall’amore del Signore e dalla passione per Gesù e i fratelli; e non è facile incontrare persone dalle quali traspaia un animo buono, in pace, intimamente gioioso. Vuol dire che lo Spirito è stato esiliato? No, di certo; ma è vero che non sempre gli viene fatto molto spazio. Il fatto è che lo Spirito i doni li elargisce, sempre e in abbondanza, dentro e fuori dal nostro recinto ecclesiale. Perché tante volte non vengono accolti e coltivati? Ci sarebbe bisogno di una diagnosi della situazione spirituale del nostro tempo per capire tanta aridità; è più urgente però interrogare noi stessi, per verificare nel vivo del nostro essere che cosa impedisce o rallenta l’accoglienza dei doni dello Spirito. Ma su questo tornerò alla fine dell’omelia.
Vorrei invece prima proporre un esercizio di discernimento a partire dai tre momenti che hanno scandito fino ad ora questa Veglia. Il primo è stato il momento sinodale. Non ci nascondiamo lo scetticismo a fatica dissimulato di chi aspetta che anche questa “moda pastorale” passi. La verità è che non si tratta di una moda, perché le sue radici affondano nel Concilio, di cui uno dei primi frutti è il Sinodo dei vescovi voluto da Paolo VI, come ricorda papa Francesco nel discorso per il cinquantesimo della sua istituzione. Dobbiamo vedere in questo un segno dello Spirito, al quale va accostato un altro segno quanto mai attuale, e cioè il cambiamento del quadro sociologico della Chiesa con la riduzione drastica dei preti e religiosi, ma anche di collaboratori laici. Cosa ci dicono questi segni accostati l’uno all’altro? Ci chiedono di cambiare. Noi preti siamo sommamente necessari, ma non bastiamo più. Pensiamo forse che il Signore abbia deciso, per questo, di far finire la Chiesa con noi? Niente affatto! Il Signore ci sta conducendo a cambiare il nostro modo di essere e di fare Chiesa. Mentre si aspetta che continuiamo a chiedere vocazioni (e tutte le vocazioni!), ci chiede di rimescolare, per così dire, le carte dell’organizzazione ecclesiastica, con più spazio a diaconi e laici, e con più cura, da parte nostra, della preghiera, dell’annuncio e della formazione (sulla linea suggerita da At 6). Il segno dello Spirito, in tutto questo, è la gioia di cambiare, la gioia di una ventata di aria fresca e di nuova vitalità in un corpo stanco e avvilito, la gioia di vedere crescere relazioni, collaborazioni, presenze, soprattutto comunione e volontà di andare fuori dal recinto e non solo di aspettare che qualcuno vi entri.
Il secondo momento ha toccato il Percorso dell’Iniziazione Cristiana. Forse è il caso di chiarire un punto, a questo riguardo. Esso non è di sicuro una fissa del vescovo. Se c’è una cosa che la storia deve registrare, è che il vescovo c’è arrivato dopo e insieme ad altri; e che tanti, clero e laici, vi hanno lavorato per un tempo davvero considerevole. Spesso perfino tra quelli che hanno mostrato e mostrano scetticismo molti hanno già speso energie, attenzione, competenza, confronto e condivisione per dare forma a un progetto che ormai da anni impegna in qualche maniera tutti. Si dice: è difficile. Ma proprio qui sta il segno: che non è una cosa facile. Chi ha detto che dobbiamo fare solo le cose facili e che il Signore ci chieda solo cose facili? Abbiamo dimenticato la “porta stretta”? Non possiamo dire a questo punto: scusate, abbiamo scherzato, facciamo finta di niente e cominciamo un altro carosello. Nella Chiesa non funziona così. Il segno dello Spirito, dunque, c’è, ed è il cammino finora fatto. Un cammino conforme alla natura della Chiesa, che è comunione e missione. La comunione caratterizza e definisce la comunità, il vero e integro soggetto della missione; e la missione della Chiesa-madre è innanzitutto l’accompagnamento alla crescita nella vita e nella fede delle nuove generazioni. Siamo al cuore dell’essenza della Chiesa e della sua missione. Da questo punto di vista cono-sciamo diverse parrocchie che manifestano una vitalità che davvero riempie il cuore. Che Dio sia benedetto per questa grazia.
Ma generare ed educare sono inseparabili, e non si educa episodicamente. Un bambino non lo si accudisce ogni tanto, occasionalmente, bensì ogni momento, ogni giorno. La nostra è diventata, a volte, una pastorale degli episodi scoordinati, una pastorale delle grandi occasioni e delle circostanze straordinarie; fa difetto in troppi casi il cammino quotidiano, l’assiduità della cura della fede giorno per giorno, per piccoli e grandi. Il Signore ci chiede conto della nostra capacità generativa. In questo siamo il prodotto della nostra società, afflitta dalla denatalità. Abbiamo perduto di vista che per essere fecondi, bisogna avere il cuore generativo, quello di un uomo e di una donna che colti-vano l’ambizione di essere per davvero padre e madre. Conosco preti che hanno il cuore del padre, e coppie che sono sterili, e non tanto fisicamente. Perché ci siano figli ci vuole un cuore generativo, altrimenti ci si riduce a scapoloni nel cuore, sposati o meno che si sia. La gioia dello Spirito si trova nell’aiutare a crescere nuovi figli per Dio, che si sentano accompagnati dalla Chiesa e dalla propria comunità. Io sono fiducioso che, con i nostri poveri mezzi, possiamo fare molto a questo scopo, perché è ciò che il Signore ci chiede e ci vuole donare, e ciò che molti fedeli aspettano da noi tutti.
Nel terzo momento abbiamo pregato per la pace. C’è come un velo nero che si stende sopra di noi, con questa guerra nel cuore dell’Europa orientale di cui non si vede via d’uscita nonostante i tentativi diplomatici in corso. Dobbiamo pregare e avere fiducia che il Signore toccherà i cuori. Ma intanto siamo noi a dover cogliere il segno che lo Spirito vuole offrirci. E il segno sta in questo, che ciò che succede in grande con la guerra, spesso tocca e caratterizza le nostre persone e i nostri rapporti. Si verifica qualcosa di simile tutte le volte che impostiamo i nostri rapporti con gli altri, a cominciare dai vicini, unicamente allo scopo di coltivare i nostri interessi e di rafforzare le nostre sicurezze, anche a danno degli altri, noncuranti del loro benessere e della loro serenità, dei loro diritti e delle esigenze della giustizia. Non so quanto del nostro desiderio che la guerra finisca viene dalla pena per le sofferenze inaudite inflitte a un popolo aggredito come quello ucraino e a tanti russi innocenti, o non piuttosto dal desiderio di poter presto riprendere indisturbati le proprie piccole guerricciole quotidiane. La gioia sta qui nell’imparare ex novo la capacità di coltivare rap-porti buoni, di vigilare di fronte all’istinto di sopraffazione e di prevaricazione che talora ci assale, per imparare una convivenza di persone che vogliono sinceramente il bene e la giustizia, per tutti e non solo per sé. Un’utopia? Ma se non sogniamo cose grandi e nobili, ci ridurremo all’età della pietra.
In ultimo vorrei tornare sulla questione iniziale. Lo sappiamo che i doni dello Spirito non hanno una efficacia meccanica. Vale per tutti l’espressione di san Paolo: «Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25). Ci vuole fare la nostra parte. E la nostra parte comincia dall’atteggiamento di fondo che nutriamo in noi, si direbbe – con una parola non bella ma ora usata – che comincia dalla nostra postura. Vuol dire il modo propriamente nostro con cui guardiamo, giudichiamo e ci atteggiamo nei confronti degli altri e della realtà tutta. Come io mi pongo nei con-fronti della vita, dell’altro, di Dio? Spesso le nostre reazioni sono manifesta-zioni del nostro profondo sentire e modo di essere, a prescindere da ciò che accade fuori di noi. Questo inquina profondamente anche il nostro rapporto con lo Spirito di Dio, di cui accogliamo o respingiamo le ispirazioni magari confondendole con i nostri desideri e le nostre aspirazioni o, al contrario, con le nostre idiosincrasie e le nostre insofferenze.
Per discernere davvero ci vuole un cuore pacificato, che accoglie la realtà, sincero e retto, desideroso di assecondare il Signore, nella certezza che il Signore non fa mai mancare il suo Spirito, e quindi la sua grazia, il suo aiuto, il suo incoraggiamento. È questo in particolare che vogliamo chiedere stasera al Signore per noi e per il futuro della nostra Chiesa.