Celebrazione del Mandato ai collaboratori pastorali
Letture del mercoledì della XXVII settimana TO (Gn 4,1-11 e Lc 11,1-4)
Curia vescovile, 6 ottobre 2021
+ Mariano Crociata
Uno strano profeta, Giona: di malavoglia e dopo aver cercato di sottrarsi, accetta di predicare a Ninive. E succede che la predicazione sia accolta e la conversione avvenga (non è vero che la Parola di Dio non ha mai successo ed efficacia, o che viene sempre rifiutata).
Ma Giona non è contento. Perché? In realtà non accetta l’intenzione di Dio, la sua misericordia verso chi meriterebbe punizione e morte (“se non vi convertite, Ninive sarà distrutta”: Giona sembra desiderare più la distruzione degli uditori che la loro conversione).
La motivazione è nel cuore di Giona: in realtà non è così contento di essere profeta, di essere portatore della Parola di Dio, di essere vicino a Dio, con Lui; si sentirebbe appagato solo se si potesse vedere chi è migliore degli altri, superiore agli altri, se Dio fosse solo per lui, se lui fosse insomma al centro di tutto e al di sopra di tutti.
Viene da pensare al figlio maggiore della parabola del figlio prodigo/del padre misericordioso: vive il suo stare in casa con il padre come un peso, non con gioia e come un bene di cui godere, ma come una costrizione, una limitazione di libertà, una rinuncia e una perdita. Così anche Giona. Perciò non può accettare che i figli scapestrati siano voluti bene allo stesso modo dal Padre, e anzi con più premura e tenerezza.
È un quadro così lontano dal nostro quello che Giona ci presenta? In realtà egli ci sta dipingendo: spesso viviamo il nostro cristianesimo come un peso, come un sacrificio continuo, una rinuncia senza fine, e troviamo consolazione solo nel senso di privilegio e di superiorità rispetto agli altri, e quando questo privilegio e superiorità non ci sono più, non proviamo più niente e ci tiriamo indietro. Forse non abbiamo mai veramente imparato ad amare e ad apprezzare l’amore di Dio per se stesso, fino a sentircene pieni, ricchi, gioiosi.
Non dobbiamo sorprenderci se la gente non vuole entrare a far parte delle nostre comunità: ma perché dovrebbe venire se trova gente musona e scontenta, e soprattutto sempre in rivalità su chi deve primeggiare e contare di più?
Viene il tempo in cui dobbiamo imparare ad annunciare che Dio le ama, a persone che non ne vorranno sapere di entrare a far parte della Chiesa ma cercheranno di credere a loro modo in Dio. (Viene da pensare a quelle scene evangeliche in cui gli apostoli vogliono impedire di fare miracoli a uno che non segue Gesù ma li fa nel suo nome, o vogliono far cadere il fuoco dal cielo su una città samaritana: Gesù benefica non solo i suoi seguaci, ma anche molti che andranno per la loro strada; questo ci sconvolge, ma è la situazione evangelica, alla quale stiamo tornando dopo secoli di cristianità).
Qualcuno si chiederà: ma allora vale la pena fare tutte le cose che facciamo? È questa la tentazione specifica di questo tempo (e infatti molti si allontanano). E la tentazione sarà superata solo da chi apprezzerà la vita della Chiesa non perché conferisce o assicura una qualche forma di superiorità morale o spirituale o di altro genere nei confronti degli altri, ma solo perché merita tutto il vivere per il Signore servendolo nella comunità di quanti credono in Lui, per quanto deboli e pochi siano. Rimarrà solo chi sa apprezzare l’essere Chiesa con tutto ciò che significa e lo apprezzerà per se stesso e non per altri scopi.
La lettera pastorale si inserisce bene in questo quadro, perché è un invito ad alzarsi in piedi, come quello rivolto da Gesù alla figlia di Giàiro e ad altre figure che incontra sul suo cammino.
Abbiamo bisogno di alzarci, non solo perché abbiamo difficoltà straordinarie da superare (le conseguenze della pandemia o la crisi che stanno attraversando le nostre parrocchie e la nostra diocesi [con un solo seminarista, quest’anno]), ma perché rialzarsi è l’unico modo di essere veramente credenti e umani. Da sdraiati o da seduti non si va da nessuna parte, non si conclude niente, si è destinati a sicuro fallimento. Bisogna rialzarsi per vivere, non per un dovere morale, o per una qualche motivazione spiritualistica, o per una qualche mozione volontaristica, ma semplicemente perché così si è umani e credenti: Dio ci ha creati eretti, in piedi (l’umanizzazione si è compiuta quando l’essere umano ha cominciato a saper camminare sulle due gambe e con due piedi, e non più a quattro zampe), perché Dio vuole persone che gli stanno di fronte, con cui può parlare, con cui può passeggiare (cf. Gen 3,8).
Ora il Signore ci chiede di affrontare gli impegni che ci affida da persone erette, in piedi, lanciate verso l’alto: il cammino sinodale della Chiesa italiana e l’attuazione del Percorso dell’iniziazione cristiana. Stare in piedi significa abbracciare, scegliere queste indicazioni della Chiesa, farle proprie e impegnarsi per realizzarle. Non ci sono cammini senza difficoltà e le difficoltà si superano se si vogliono affrontare; se si aspetta che qualcun altro li risolva per noi, non si risolveranno mai, e noi rimarremo dove siamo, anzi andremo sempre più indietro (perché in rapporto a Dio non si sta fermi, o si va avanti o si torna indietro, o ci si rialza o si sprofonda nella depressione).
Giona è l’esempio di come non dobbiamo fare: non fare le cose per forza e malvolentieri, ma mettendoci il cuore e tutta la passione vitale che il Signore ci dona, che scaturiscono dall’esperienza personale dell’amore di Dio.