OMELIA
Domenica XXX TO A
Marsala, Chiesa Madre, 25 ottobre 2020
+ Mariano Crociata
Quando parliamo del comandamento dell’amore, non dobbiamo mai perdere di vista che esso si fonda su un atto d’amore, un dono d’amore che discende da Dio e si riflette nella stessa chiamata e nella grazia della risposta d’amore. Solo in questo modo il comandamento può essere inteso nel suo senso più proprio, non di ordine esteriore quasi imposto dall’alto, ma come via da seguire secondo l’indicazione e l’illustrazione di colui che ti invita a percorrerla nell’atto stesso in cui ti offre tutto il sostegno necessario a compiere il cammino. Le pagine della Scrittura ci permettono di evidenziare nel merito tre aspetti.
Il primo è segnalato dalla forma verbale al futuro del verbo amare: amerai. Vi è contenuta una apertura di prospettiva: per amare veramente, come Dio chiede e come egli stesso innanzitutto testimonia e offre in dono di compiere, bisogna aprirsi a un cammino, a una crescita instancabile, a un compimento che bisogna allo stesso cercare e accogliere. C’è anche una dimensione di progetto nell’amore come agape, come donazione di sé e come ricerca della gloria di Dio e del bene dell’altro. Lo si coglie molto bene nell’amore coniugale consacrato dalla grazia dello Spirito Santo mediante il sacramento del matrimonio, come in tutti i progetti di vita mossi da una vocazione alla dedizione di sé nel servizio e nella fraternità.
Il secondo aspetto è segnalato dalla peculiarità del comandamento dell’amore di Dio, che chiede il coinvolgimento di tutta l’anima, di tutto il cuore, di tutta la mente. Le espressioni vogliono significare non parti specializzate della figura umana, ma la sua totalità a partire dal centro interiore che indirizza e orienta la persona nella sua interezza. E la ragione è presto detta: a colui dal quale si è ricevuto tutto, non si può restituire meno di tutto. L’amore di Dio è (o dovrebbe essere) la spontanea corrispondenza della creatura e del credente con tutto se stesso a colui dal quale tutto ha avuto e continua incessantemente ad avere.
Il terzo aspetto tocca l’amore del prossimo. Il “come te stesso” può essere scambiato per una esortazione a regolarsi secondo il modello che sarebbe l’amore di se stessi. In realtà l’amore di sé da solo non può essere modello, perché da soli non sappiamo nemmeno come volere il nostro bene. È nella circolazione dei rapporti interpersonali che riconosciamo noi stessi e che impariamo ad amare circolarmente noi stessi e gli altri, noi stessi insieme agli altri. È dunque un invito e la richiesta – con la grazia che vi è allegata – a cercare il bene proprio e altrui in un continuo andirivieni da sé all’altro e viceversa. La direzione è quella dettata dal senso proprio dell’amore: uscire da sé verso l’altro. Ma la capacità ricevuta di cercare con tutto il cuore il bene dell’altro non fa altro che insegnarci a saper volere il bene della persona, anche della propria persona, perché si è imparato a volere il bene dell’altro come di sé, e quindi “il bene di sé come un altro”. Nella medesima direzione orienta la prima lettura, quando comanda di non molestare né maltrattare il forestiero, «perché voi siete stati forestieri». Volere il bene dell’altro è volere il bene di se stessi, e si vuole bene veramente a se stessi quando si impara a riconoscere che l’altro è come se stessi.
Appare illuminante, in questo senso, l’esempio del beato don Pino Puglisi, di cui oggi vengono esposte alla pubblica venerazione le reliquie, in una circostanza che si rivela felice anche per la coincidenza liturgica. La sua figura si presenta, al termine del nostro breve percorso di riflessione, come la possibilità di desiderare e cercare la perfezione dell’amore. E di fatto don Pino Puglisi ha condotto la sua vita in una dedizione totale a Dio e ai fratelli, in una unità dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo – e anche questa è una caratteristica essenziale del comandamento dell’amore – manifestata nella ordinarietà di una vita di prete e di servizio pastorale che di eccezionale aveva non tanto l’apparenza esteriore ma la qualità interiore e relazionale. Egli ci testimonia che la perfezione dell’amore è la santità e che la santità non è altro che la perfezione dell’amore. E tale perfezione giunge in lui alla massima espressione perché, oltre la dedizione di una vita e in conseguenza di essa, egli viene chiamato – perché di questo si tratta, di una chiamata – al martirio. Sigillato, nel suo caso, da un sorriso e dalle parole con cui ha accolto il suo uccisore e consumato gli ultimi istanti della sua vita: “Ti aspettavo”.