OMELIA
Funerali di Mons. Renato Di Veroli
Cattedrale di Latina, 23 settembre 2015
+ Mariano Crociata
Mons. Renato Di Veroli, ordinato sacerdote da Mons. Navarra nel 1941, il prossimo 29 giugno avrebbe compiuto l’ambìto – e rarissimo – traguardo del 75° anniversario di ordinazione. Nei primi anni dopo l’ordinazione fu viceparroco a Sezze: restò interiormente colpito dalla tragedia della guerra che, oltre a inghiottire tante vite, ridusse in macerie la chiesa dei SS. Sebastiano e Rocco alla quale egli era tanto legato. Nel 1945 fu destinato parroco a Borgo Faiti, dove rimase dieci anni.
Nel frattempo, con il passaggio di quella parte di territorio alla diocesi di Velletri, don Renato divenne parte del presbiterio di quella nuova Chiesa locale, della quale condivise poi le successive vicende, stabilendo un intenso rapporto filiale con il cardinale Clemente Micara, che nel 1955 lo volle parroco a Latina, nella nuova chiesa di S. Maria Goretti, prima parrocchia della città ad essere istituita dopo la parrocchia madre di S. Marco: le due storie, quella personale di don Renato e quella della neonata parrocchia di S. Maria Goretti, vennero così a incontrarsi fino a fondersi in una storia sola. Don Renato infatti vi rimase parroco per 46 anni, continuando poi, fino a pochissimo tempo fa, a prestarvi il suo servizio, cosa che faceva molto volentieri.
Nel 1967 il territorio delle attuali foranie di Latina e Cisterna dalla diocesi di Velletri fu unito alla diocesi di Terracina, Priverno e Sezze, contribuendo così alla formazione della nuova diocesi di Terracina-Latina, Priverno e Sezze, poi, dal 1986, diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno. Don Renato visse tutti questi passaggi, tornando così al punto di partenza, alla diocesi in cui era cresciuto, che nel tempo aveva arricchito la propria fisionomia e ampliato il suo territorio.
Nella diocesi don Renato ha ricoperto per lungo tempo incarichi di responsabilità, collaborando i diversi vescovi che si sono succeduti: direttore della Caritas diocesana, assistente dell’Ucid, vicario foraneo di Latina e infine, dal 1991 al 2001, vicario generale con i vescovi Domenico Pecile e Giuseppe Petrocchi. Nel 2001, a 85 anni, rassegnò le dimissioni dai suoi compiti di parroco e di vicario generale.
Don Renato è stato un sacerdote – come si suol dire – tutto d’un pezzo, con una dedizione appassionata alla Chiesa, di cui ha abbracciato con prontezza il rinnovamento portato dal concilio Vaticano II; ma con non minore dedizione egli si è impegnato nella vita della città e dell’intera comunità civile, nella fase più dura della guerra e della ricostruzione e ugualmente nei decenni successivi.
Questo sguardo a una figura esemplare di sacerdote e al suo secolo di vita – che abbraccia la storia della sua persona, ma anche di una Chiesa, di una città, di un intero territorio – ci mostra ad evidenza che quella di oggi è soprattutto una celebrazione di ringraziamento. Senza attenuare il senso della perdita, percepiamo di essere di fronte a un’opera compiuta, a un disegno che si è per intero realizzato. Sazio di giorni, ora egli riposa tra i servi fedeli del Signore: così crediamo, speriamo, preghiamo. È il medesimo sentimento ad animare il testamento di don Renato, il quale scrive: «Ringrazio Dio Padre, datore di ogni bene, che è stato molto generoso con me. Ringrazio Gesù, sommo ed eterno Sacerdote, per avermi associato al Suo sacerdozio. Ringrazio lo Spirito Santo, per avermi illuminato nella scelta nel seguire la via sacerdotale».
Così dicendo, egli per primo non perde di vista il significato drammatico della morte. Ancora nel testamento, che è del 2003, scrive: «Ora sto per presentarmi davanti al Signore per il “redde rationem”. Chiudo questa vita terrena e mi aspetta “sora nostra morte corporale”. Sono stato educato a vedere la morte come un partire ringraziando. “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 29,46)». Un senso di serenità e di severità ha accompagnato quest’ultima fase della vita di don Renato, e in ultimo anche la sua morte. Lo stesso senso che si coglie quando leggiamo, sempre nel suo testamento, a proposito della sua fine: «Niente elogi. Si prenda occasione per fare una profonda meditazione sulla morte: nostra Pasqua. Inizio della vera vita. Niente epigrafi per la città. Niente ricordini. Chi mi ha conosciuto non ha bisogno di foto per ricordarmi: mi ricordi nella preghiera».
Queste poche parole conferiscono una risonanza particolare, intima, alle pagine scritturistiche che abbiamo ascoltato (2Cor 4,14-5,1; Gv 14,1-6), a lui peraltro molto care; ne distillano, infatti, profondamente il senso. Il nostro sguardo viene invitato a orientarsi oltre la siepe del finito, per proiettarsi decisamente verso la casa del Padre. Il motivo della stabilità e dell’accoglienza di una casa, di un posto sicuro, attraversa i testi; soprattutto intercetta un profondo bisogno che ci intriga, e ci vede tante volte attardarci nell’illusione di trovare ambienti e situazioni in cui stare a nostro agio, darci pace e tranquillità. Ma sappiamo che qui non può esserci un tale luogo. Il luogo in cui ritrovare noi stessi è solo la casa del Padre. Finché siamo viandanti, il rovello e l’affanno non ci potranno lasciare. Proprio di fronte a questa condizione a cui è impossibile sfuggire, ci accorgiamo che non è la stessa cosa vivere con la fede nella vita eterna e rassegnarsi al disperato ermetico isolamento di questa terra e di questa vita.
Oggi è un’operazione difficile, per la cultura corrente, riuscire a far passare il messaggio della vita eterna e del futuro in Dio. Accade infatti che di fronte alla disperante chiusura del finito, si cerchi non di varcare i confini nella direzione della trascendenza e del divino, ma di evadere dal presente e dalla prigione di una esistenza senza finestre e senza futuro, cercando ripiego nel virtuale, nell’allucinazione, nell’evasione ludica ed estetizzante. Il cuore dell’esperienza cristiana e sacerdotale di don Renato può ben essere colto in questa serietà nell’assumere fino in fondo il compito dell’esistenza, senza tergiversazioni e senza fughe, nella consapevolezza che il credente è un vero uomo, capace di reggere il confronto con la durezza della condizione umana grazie a una prospettiva di eternità, che non vale a sottrarsi ma ad affrontare ogni passo del cammino della propria esistenza nella certezza che in ognuno di essi c’è un carico di vita senza fine in Dio: un modo di guardare e di condurre la vita che rimane lezione preziosa per vecchie e nuove generazioni.
Lasciando il compito, a cui don Renato invita nel suo testamento, di continuare la meditazione sulla morte alla nostra riflessione personale, non facciamo passare inosservati almeno ancora due spunti dalle pagine bibliche. Il primo è dell’apostolo Paolo, che vede svolgersi un processo inverso nel corpo e nello spirito del credente; non intende, così dicendo, alimentare artificiosi dualismi, ma svelare che la dimensione caduca dell’uomo è irrimediabilmente perduta se non è assunta e trasfigurata dalla risurrezione con Cristo. Mentre l’uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno: non è una contrapposizione tra due realtà separate, ma la rivelazione del senso di un movimento che tutto assume dell’uomo verso la pienezza del suo essere e della sua vita. San Paolo invita a non lasciarsi ingannare dal decadimento fisico e psichico che inesorabilmente affligge l’essere umano nel decorso temporale della sua esistenza, ma piuttosto a vedere dentro tale processo una potenza di vivificazione che viene dalla risurrezione di Cristo e, nella fede, apre alla risurrezione finale.
Per quanto ostico sia diventato pensare e parlare di vita eterna e di futuro di Dio, ossessionati come siamo ormai solo del conseguimento di un benessere psico-fisico, nondimeno niente riuscirà a cancellare il sogno e l’aspirazione a una pienezza e a una totalità che solo in Dio trova la sua realizzazione. E che questo non sia una velleità o il frutto di speculazione lo dice il cuore stesso della fede e della storia cristiana, e cioè Gesù Cristo, che da vero uomo in cui ha preso carne il Figlio di Dio, ha mostrato e proclamato di essere lui stesso «la via, la verità e la vita» in cui tendere e incontrare fin da ora il Padre. La vita eterna non è un sogno o una illusione, ma una esperienza di comunione con Dio attinta già nel corso di questo tempo fuggente, e perciò un modo di esistere e di andare verso la sicurezza della casa del Padre resa accessibile a quanti ascoltano con fede e mettono in pratica la parola di Gesù rimanendo così sempre uniti a lui.
Don Renato ha testimoniato, lungo un tempo insolitamente lungo e coerente, che è possibile vivere in autenticità e pienezza un’esistenza basata su tale fede e ci confida, dall’altezza a cui lo conduce oggi la sua morte, che non c’è sazietà di giorni che possa eguagliare la nostra ultima meta, la vita eterna.