Quest’anno sono le Chiese e la comunità civile del Lazio – in qualche modo la “regione romana” – ad accorrere alla tomba di Francesco nel giorno commemorativo del suo transito. La circostanza si presta bene per essere accostata, idealmente, al gesto della nobildonna romana Jacopa dei Sette Sogli, legata a Francesco da intensa e cordiale amicizia, che seppe intercettare con straordinario tempismo i desideri del Santo, trovandosi al suo capezzale proprio mentre stava per esserle spedita la lettera dettata da Francesco, che la invitava a recarsi da lui; in quella circostanza estrema, donna Jacopa, meglio “frate Jacopa”, portò con sé anche dei dolci che a Francesco piacevano tanto e che egli, con gesto di squisita umanità, avrebbe desiderato mangiare prima di morire.
Diversamente da Jacopa, che ebbe la consolazione di rivedere Francesco ancora vivo, Chiara e le sue sorelle poterono riabbracciare solo un corpo morto, di fronte al quale diedero libero sfogo al proprio dolore. Il grido e il pianto della comunità di S. Damiano li riviviamo con commossa partecipazione, perché ci richiamano il momento supremo della vita terrena di Francesco, ma anche perché esprimono l’universale percezione dello scacco – apparente, in realtà – della nostra fragile umanità di fronte alla morte, la nemica che diventa amica perché spalanca davanti a noi le porte dell’eternità.
È sempre difficile parlare della morte; di fronte a essa ci prende un legittimo pudore, e a volte anche la tentazione di rimuoverla o esorcizzarla. Eppure essa è legata indissolubilmente alla vita. È ciò che Francesco insegna non solo nel momento estremo, ma in quel lungo confronto con «sora nostra morte corporale» che lo accompagnò in mezzo a miserie umane e a sofferenze fortissime, sia fisiche che spirituali. Pensiamo alla morbosa curiosità dei suoi concittadini che nelle ultime settimane scrutavano la sua prossima fine calcolando cinicamente su di essa. Pensiamo alle malattie che lo minarono progressivamente, alla fine logorando del tutto un fisico dalla tempra sempre piuttosto fragile, e in particolare alla cecità, divenuta negli ultimi tempi quasi totale. Pensiamo alle vicissitudini di Francesco per l’evoluzione della nuova famiglia religiosa e la crescita considerevole del numero dei frati, con i problemi conseguenti nelle relazioni con i frati e la profonda lacerazione interiore prodottasi in lui. «Furono, per lui, gli anni più duri. Un testo meritatamente famoso, qual è quello sulla vera letizia, si rivela a questo proposito di un’eloquenza disarmante: “Vattene, tu sei un semplice e un illetterato, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. Come se Francesco stesso si sentisse ormai fuori posto nelle pieghe che gli eventi stavano prendendo. Eppure, nonostante tale contesto umanamente avvilente, gli ultimi tempi della sua vita furono non un’agonia, ma un parto. Con piena coscienza avvertì la fine imminente» (F. Accrocca). Infatti, di fronte alla notizia sulle reali condizioni del suo stato di salute, trattandosi di una malattia incurabile, Francesco reagisce lodando il Signore: «Ben venga sorella morte» e anzi chiede a frate Leone e Angelo di cantargli il Cantico di Frate Sole, nel quale fa inserire, prima dell’ultima strofa, la lode di sorella morte.
È la fede che ha consentito a Francesco e consente anche a noi di accedere al passaggio pasquale, nel quale le tenebre si trasformano in luce. Nel brano tratto dalla Legenda maior, ascoltato all’inizio della veglia, Bonaventura, con grande finezza di teologo, insiste su questa straordinaria verità: in quello stesso momento in cui la morte consentì a Francesco «di entrare nel luogo della luce e della pace», «le allodole, che sono amiche della luce e han paura del buio della sera, pur essendo già imminente la notte, vennero a grandi stormi sopra il tetto della casa». Dopo secoli, «la luce di quella notte non si è spenta. Francesco è ancora oggi una stella che risplende per tutti gli uomini e per tutti i popoli».
Egli continua a ripetere a tutti le parole del salmo: «i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi». Poiché, come insegna l’Apostolo, «quelli che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace».
Francesco visse con fede la sua morte, così come aveva vissuto con fede la propria vita. Nel momento del trapasso la morte divenne sorella e dal suo cuore il canto sgorgò come da sorgente; il chicco di grano caduto in terra, lasciandosi morire, produsse la vita di molti: «E del suo grembo l’anima preclara / mover si volle, tornando al suo regno, / e al suo corpo non volle altra bara» (Paradiso XI, 115-117).