Omelia per la Messa con gli aderenti al Movimento di Comunione e Liberazione

Latina, 21 febbraio 2014, nel nono anniversario della scomparsa di monsignor Luigi Giussani
16-06-2014

Vi ringrazio dell’invito, che mi permette per la prima volta di incontrarvi e di farlo con questa Eucaristia che celebriamo nel nono anniversario della scomparsa di don Giussani. La nostra celebrazione vuole esprimere anche l’apprezzamento da parte del Vescovo della presenza di Comunione e Liberazione in questa diocesi, carisma che insieme a tutti gli altri arricchisce e rende viva e feconda la Chiesa.

La nostra, più che una commemorazione, è un ringraziamento al Signore per il dono di don Giussani e per i frutti che la sua testimonianza e il movimento da lui fondato hanno generato e continuano a suscitare nella comunità ecclesiale. Voi che avete ricevuto in lui un tramite privilegiato per incontrare il Signore, potete attestare con il vostro cammino di vita che cosa egli rappresenta per voi e per la Chiesa. Da parte mia posso solo condividere una riflessione che sinteticamente racchiude un messaggio riconoscibile anche da uno sguardo esterno. Lo sfondo su cui meglio si stagliano la figura e l’insegnamento di don Giussani, per me, è il Vaticano II, precisamente là dove esso scandisce il passaggio da una concezione intellettualistica e unilateralmente dottrinale della rivelazione, a una visione nella quale questa prende corpo, prima e oltre che nella parola dello stesso Gesù, nella presenza, nella carne, nella sua persona concreta incontrata e sperimentata in una esperienza integrale che coinvolge per intero la vita. In questo senso definirei don Giussani, nella sua persona e con la sua storia, un ermeneuta conciliare del tempo presente, un interprete esemplare dell’epoca che ha visto compiersi e produrre i suoi effetti la vicenda della Chiesa del Concilio. Ancora oggi paghiamo lo scotto di forme di cristianesimo dissociato, non adeguatamente assunto dentro l’esistenza concreta con i suoi drammi, le sue emozioni e le sue fatiche, le relazioni e le scelte che la attraversano, come sono – tra altre – la fede ridotta a opinione o a culto formale estraniato dalla vita.

Mi appare singolarmente sintonico, tutto ciò, con il richiamo della pagina di san Giacomo (2,14-24.26) che abbiamo ascoltato, che sarebbe strumentale mettere in contrasto con la dialettica che san Paolo instaura tra fede e opere; per l’uno e per l’altro, infatti, la fede non è vera se non coinvolge interamente la persona e la sua vita; anche per Paolo la fede afferra così profondamente il credente («e non vivo più io, ma Cristo vive in me», Gal 2,20), che tutto ciò che egli opera non può essere altro che compiuto secondo la parola e lo Spirito di Gesù, ovvero in quella «fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Per questo anche san Giacomo può dire che «la fede senza le opere è morta».

Di quali opere e di quale fede operosa si tratti lo troviamo suggerito nel Vangelo (Mc 8,34-9,1), almeno in riferimento all’orientamento di fondo del discepolo: rinnegare se stessi, prendere la propria croce, seguire Gesù, perdere la vita per lui, non vergognarsi mai di lui. Non si tratta propriamente di opere determinate, ma di situazioni tipiche e del corrispondente atteggiamento paradigmatico del discepolo, che possiede nel legame con Gesù il criterio ultimo delle sue scelte e di tutto il suo agire. Gesù al di sopra di tutto: è questa la presenza decisiva per il cristiano, sulla quale regolarsi in ogni circostanza.

Questo sia anche il nostro impegno, o almeno l’oggetto della richiesta che rivolgiamo al Signore in questa Eucaristia, sostenuti anche dall’esempio e dall’insegnamento di don Luigi Giussani.

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