Saluto
alla Delegazione regionale della Caritas del Lazio – Latina, 4 dicembre 2014
+ Mariano Crociata
Il capitolo quinto di Michea contiene alcune tra le espressioni più famose e suggestive delle profezie messianiche dell’Antico Testamento. Inutile cercare un parallelismo troppo realistico con l’avvento del messia Gesù di Nazaret. Importante è invece cogliere la direzione, l’aspirazione di fondo, l’immagine ideale proiettata dalla fede nella promessa di Dio e dalla certezza del suo intervento. Allora diventa facile raccogliere i motivi del pascere come azione propria del messia, della forza di Dio e della sua maestà, della sicurezza sperimentata oltre ogni confine. Tutto si condensa nella parola ‘pace’: benedizione e abbondanza in ogni genere di beni.
In fondo è il sogno di ogni uomo e di ogni popolo. Ma qui si manifesta la capacità (o la grazia) non solo di coltivarlo, tale sogno, bensì anche di credervi, di averne certezza con una fiducia incrollabile in Dio e nella fecondità di attendere operosamente il compimento delle sue promesse, più forti delle infedeltà e delle mancanze del popolo. Non siamo, dunque, di fronte solo a un profondo sentire umano, a una capacità di idealità nel guardare il futuro, ma a una storia: l’attesa del messia nasce dentro una storia che sperimenta alterne vicende, ma sempre in un legame indissolubile, in una fedeltà di Dio che diventa garanzia per il futuro e per lo stesso presente del popolo che a lui si affida.
Si tratta di una fede che fa stare in piedi, che chiede di camminare e di decidersi. Questo appare definitivamente in Gesù, riconosciuto e confessato come il messia atteso. A lui Paolo attribuirà lo stesso titolo di Michea: egli è la nostra pace (Ef 2,14). Egli è la pace perché abbatte con la sua croce il muro di separazione che divide Israele e i popoli. La divisione tra le persone e i gruppi umani (magari per malintesi motivi di credo religioso) è il più grande ostacolo alla pienezza di benedizione che Dio vuole effondere e che Gesù ha portato. Ma per vincerla, la divisione, c’è bisogno del passaggio della croce.
Che cosa significa trasporre tutto ciò sul piano dell’attività, o meglio della dimensione, caritativa della comunità ecclesiale? Non si dà una trasposizione meccanica. La Parola di Dio non è una serie di dottrine o di precetti semplicemente da applicare. Chiede valutazione, interpretazione, giudizio, scelta.
Voi oggi rifletterete sulla vostra formazione. È un tema davvero importante. Ma non consiste in una operazione del tipo: riempire di idee una testa vuota o, anche, arricchire di nuove conoscenze una competenza scadente o bisognosa di aggiornamento. Ci vorrà anche questo. Ma la formazione riguarda la forma – personale, interiore e spirituale, ma anche relazionale e sociale – che si deve prendere. Qual è la forma che questa Parola di Dio ci dona e ci chiede? È una domanda aperta. Rispondo dicendo qualcosa rispetto al molto che ci sarebbe da considerare.
La prima cosa è che non bastiamo a noi stessi; non ce la facciamo da soli. Abbiamo bisogno di un messia. Sembra che lo sappiamo, ma non è per niente così facile accettarlo e farlo nostro, accettare di non salvarsi da soli. Il paradosso è che abbiamo coscienza dei nostri limiti ed errori, però con le nostre convinzioni di principio abbiamo la pretesa di avere l’abilità di mettere le cose a posto. E invece tutto ricomincia davvero se riconosciamo la forza e la maestà di Dio, se ci lasciamo pascere dal suo messia.
La seconda cosa da ricordare è che non c’è formazione senza il passaggio della croce; è questa che dà forma all’unità, non solo tra diversi e opposti, perfino tra nemici, ma già innanzitutto alla persona stessa, all’interno della persona e nello svolgimento della sua esistenza. Abbiamo banalizzato perfino il senso più genuino dell’affermazione della pace che comincia da me, nel mio cuore, perché l’abbiamo resa una pace fatta di buoni sentimenti e di buone intenzioni: niente di più falso. Non c’è pace in noi senza la guerra senza tregua contro il nostro io autocentrato, contro il nostro narcisismo. Per riconoscere che il centro non siamo noi e lasciarci davvero pascere dal messia della pace abbiamo bisogno di passare attraverso il vaglio della croce.
Il terzo punto riguarda l’impegno propriamente caritativo. Esso deve avere una dimensione messianica, nel senso che deve nascere da persone e da comunità riconciliate attorno alla centralità del Signore Gesù; persone che scompaiono per lasciar emergere lui, il principe della pace. Questo richiede una coltivata spiritualità e un processo di educazione e di formazione permanente. Formazione non a fare ‘cose da Caritas’, ma a essere uomini di Chiesa che ne manifestano la carità che la anima e che tende ad espandersi.
Prima di chiudere sento il bisogno di collegare con tutto ciò le cronache di questi giorni. È di ieri la notizia che, secondo una agenzia internazionale, il nostro Paese è il primo per livello di corruzione pubblica in Europa e tra i più corrotti del mondo. Ed è di questi giorni l’altra notizia sulla cupola mafiosa che da anni domina la scena pubblica della capitale: capitale del nostro Lazio oltre che del Paese, nonché centro della cristianità. Scontate le reazioni di sconcerto, di sdegno, di condanna senza appello e così via cantando. Evidentemente non consentono di trarre conclusioni superficiali e affrettate gli accostamenti fatti tra l’essere il nostro ancora un Paese a maggioranza cattolica e queste notizie di cronaca, però ho l’impressione che una riflessione seria tardi ad emergere. Non mancano proclami, appelli e prese di posizione, ma evidentemente qualcosa non funziona, perché da decenni e più non cambia nulla, anzi le cose peggiorano. Non vorrei cadere nel pessimismo di chi si dispone ad attendersi la prossima serie di notizie analoghe per nuovi scandali che si stanno già consumando nel segreto. Ma se si insinua la tentazione del disincanto e quasi del cinismo, è proprio perché manca una riflessione e una presa di coscienza seri. Ci rimane la domanda su come trovare e procedere nella direzione giusta. Proprio in questa sede una qualche responsabilità l’abbiamo, tutti insieme, al livello regionale. Forse dovremmo cominciare a ragionare non come organismi preoccupati soprattutto di gestire soldi e strutture, ma di formare – appunto – coscienza. Non era il compito educativo l’ispirazione originaria della Caritas? Il decennio sull’educazione e le cronache non solo di questi giorni vengono a ricordarcelo, chissà l’avessimo perduto di vista.