Discorso alla Coldiretti Lazio su “Etica e amministrazione” (29 settembre 2014, Fossanova)

03-10-2014

Il tema proposto alla nostra riflessione è straordinariamente vasto e complesso 1; perciò non è facile farne oggetto di adeguata considerazione e trattazione, anche se di esso si parla quasi ogni giorno nella pubblicistica quotidiana e periodica, segnale dell’interesse che riveste per tutti e dell’influenza che esercita nella vita personale e sociale. Siamo di fronte a un tema che si colloca al centro dell’attenzione della coscienza collettiva e dell’opinione pubblica, ma di cui difficilmente si viene a capo in modo ordinato e concludente. Vorrei provare a capire con voi il perché di questa paradossale situazione, concernente un argomento così importante e allo stesso tempo così sfuggente.

La prima cosa, anzi il compito fondamentale che dobbiamo svolgere, consiste nel chiarire in quale senso usiamo le parole. Con il termine ‘amministrazione’ ci riferiamo a quello che è il significato principale di riferimento e come tale può abbracciare la molteplicità delle forme in cui essa si può presentare. Intendiamo pertanto «il complesso delle persone (o, più astrattamente, l’ufficio, l’organismo) cui è affidato il compito di amministrare un ente, un istituto, un’azienda, ecc.» (Treccani). Pensiamo in tal senso all’amministrazione statale, alle amministrazioni locali, agli enti di diritto pubblico, e così via. Più precisamente parliamo di ‘amministrazione pubblica’ come di quel «complesso di autorità, funzionarî, impiegati e in genere di organi dello stato, attraverso i quali questo svolge la sua attività amministrativa, e che trova il suo completamento in tutta una serie di enti ausiliarî (nazionali, parastatali, territoriali, locali) investiti di propria personalità» (Treccani). Si tratta di un fenomeno che ha una sua storia, soprattutto in epoca moderna e contemporanea, e ha portato alla nascita, negli ultimi decenni, di una cosiddetta scienza dell’amministrazione, riguardante soprattutto la pubblica amministrazione, come «parte della scienza politica», e quindi «in quanto attività di governo, con particolare riferimento alla struttura burocratica, ai suoi ruoli e alle sue funzioni nell’ambito del sistema politico. Il suo campo d’indagine include pertanto le motivazioni e la condotta degli individui preposti all’attività di amministrazione, gli aspetti istituzionali e organizzativi degli apparati amministrativi, i rapporti fra il sistema politico e il suo subsistema amministrativo, nonché fra questo e l’ambiente sociale nel suo complesso» (Treccani).

Due questioni, oggetto di dibattito in letteratura, riguardano il rapporto con l’attività politica in senso stretto, da un lato, e l’alternativa tra carattere descrittivo e carattere prescrittivo della scienza dell’amministrazione, dall’altro lato. Sulla prima questione sembra emergere una connessione sempre più stretta tra amministrazione e politica, dovuta al fatto che i modelli organizzativi e gestionali nella traduzione delle decisioni politiche entrano in gioco già nella fase di elaborazione della stessa legislazione e, d’altra parte, l’attività amministrativa prevede un margine più o meno ampio di discrezionalità e di iniziativa nella recezione e applicazione della legislazione. Quanto alla seconda questione – se descrittiva o prescrittiva – bisogna tenere conto del rapporto già consolidato con le scienze giuridiche; ma, al di là delle controversie accademiche a cui dobbiamo lasciare l’adeguata disamina, è importante osservare che comunque il rapporto dell’attività amministrativa con l’etica sta ormai nelle cose, per l’evoluzione delle società e della loro cultura, se non per gli sviluppi della ricerca scientifica (in questo senso andrebbe valutato il superamento dell’idea di burocrazia come definita da Max Weber, e cioè come una forma di esercizio del potere che si struttura intorno a regole impersonali e astratte, a procedimenti e ruoli fissati una volta per tutte e non modificabili per iniziativa dell’individuo che ricopre temporaneamente una funzione).

A dimostrare l’ingresso prepotente dell’etica nell’ambito della pubblica amministrazione è soprattutto l’esplodere ormai da diversi decenni della cosiddetta ‘questione morale’, riguardante non solo rappresentanti della classe politica ma anche dirigenti, funzionari, impiegati dell’amministrazione pubblica e privata. Lo stillicidio prodotto dall’emergere continuo di scandali per la scoperta di illecitidi ogni genere, se non di crimini veri e propri, interessa sia i pubblici ufficiali accusati e/o condannati per peculato, concussione, corruzione, abuso d’ufficio, interesse privato in atti d’ufficio e simili, sia i privati, perseguiti per violenza o resistenza, interruzione o turbamento di uffici o servizi, oltraggio, e così via. Ora è evidente che, quando ci si trova dinanzi all’esplosione diffusa di simili comportamenti, l’etica è già stata più che dimenticata, soppiantata ormai dall’urgenza dell’azione giudiziaria.

Si spiega così il sorgere di tutta una serie di reazioni intese a ristabilire una cultura etica nell’ambito della pubblica amministrazione, come pure di quella privata. Giustamente si distingue tra ethos burocratico e ethos democratico (su quanto segue si veda S. Belligni, Il volto simoniaco del potere, Giappichelli, Torino), due modelli etici che, con i loro valori e le loro norme, connotano chi opera nell’ambito dell’amministrazione. L’ethos burocratico pretende il rispetto delle esigenze formali dell’organizzazione dell’amministrazione e si ispira ai principi di competenza, imparzialità, disinteresse, neutralità politica, lealtà e obbedienza. L’ethos democratico, invece, promuove la responsabilità degli operatori e il conseguimento di risultati effettivi in vista dell’interesse comune generale. La sintesi tra i due modelli in una forma di ‘moralità burocratica’ dovrebbe consentire di perseguire l’interesse collettivo, ma essa rimane poco più di un auspicio quando si scontra con il prevalere di un terzo tipo di ethos, quello corporativo, che finisce con il perseguire altri fini rispetto a quelli propri dell’amministrazione in vista dell’interesse collettivo, privilegiando gli interessi organizzativi dei burocrati e determinando fenomeni come l’autoconservazione, l’autotutela, l’autoreferenzialità che producono comportamenti devianti e corruzione.

Un riscontro istituzionale di tale processo sono i Rapporti al Parlamento del Servizio anticorruzione e trasparenza, ora trasformato in Authority anticorruzione: un passaggio che segna il livello raggiunto dall’etica nella pubblica amministrazione, costretta a combattere la corruzione più che a promuovere la capacità di perseguire in positivo l’interesse della collettività. L’etica non può essere solo assenza di corruzione. E la corruzione non si debella soltanto combattendola, ma facendo crescere il livello etico socialmente condiviso. Bisogna dare atto che istituzioni nazionali e sopranazionali hanno mostrato di essere avvertite della questione etica. Così, l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, con 34 paesi membri), in una Nota di sintesi già di qualche anno fa (n. 7, settembre 2000), segnalava che i valori essenziali della pubblica amministrazione nella maggior parte dei paesi membri erano, nell’ordine di apprezzamento: imparzialità, legalità, integrità, trasparenza, efficienza, uguaglianza, responsabilità, giustizia. Notava, poi, che era necessario comunicare tali valori, monitorare l’osservanza delle norme, adottare misure contro i comportamenti contrari all’etica. Di fatto si è affermata negli anni l’esigenza di dotare le amministrazioni di istituzioni pubbliche e private di codici etici. È uno sforzo importante per portare all’attenzione della coscienza collettiva principi, valori, esigenze imprescindibili per una corretta amministrazione. Val la pena aggiungere che, in ambito nazionale, è stato pubblicato lo scorso 16 aprile 2013, con decreto del Presidente della Repubblica, il Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, nel quale vengono stigmatizzati i possibili comportamenti non corretti, ma anche indicati i principi generali che dovrebbero guidare l’azione dei dipendenti. Da segnalare, tra altri, i principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa, rispetto della legge perseguendo l’interesse pubblico; ancora, i principi di integrità, correttezza, buona fede, proporzionalità, obiettività, trasparenza, equità e ragionevolezza, indipendenza e imparzialità. Si tratta di indicazioni da sottoporre ad attenta valutazione, importanti comunque nell’indicare un quadro positivo di riferimento etico. Non ci si può non chiedere come un tale codice possa andare oltre la petizione di principio e la dichiarazione retorica: domande che spostano necessariamente l’attenzione sulla questione etica in senso proprio.

Risulta pertinente a questo riguardo quanto dice il Compendio della dottrina sociale della Chiesa: «La pubblica amministrazione, a qualsiasi livello — nazionale, regionale, comunale —, quale strumento dello Stato, ha come finalità quella di servire i cittadini: “Posto al servizio dei cittadini, lo Stato è il gestore del bene del popolo, che deve amministrare in vista del bene comune”. Contrasta con questa prospettiva l’eccesso di burocratizzazione, che si verifica quando “le istituzioni, diventando complesse nell’organizzazione e pretendendo di gestire ogni spazio disponibile, finiscono per essere rovinate dal funzionalismo impersonale, dall’esagerata burocrazia, dagli ingiusti interessi privati, dal disimpegno facile e generalizzato”. Il ruolo di chi lavora nella pubblica amministrazione non va concepito come qualcosa di impersonale e di burocratico, bensì come un aiuto premuroso per i cittadini, esercitato con spirito di servizio» (n. 412).

Quando parliamo di etica, dobbiamo trasferirci su di un piano distinto da quanto fin qui detto a proposito di amministrazione. Non è qui la sede per tentare una sistemazione organica del concetto, ma è comunque necessario richiamare i suoi elementi essenziali, che riconduco – a rischio di qualche semplificazione – ai seguenti tre: la coscienza, la virtù, la legge. C’è tuttavia un presupposto che sta dietro questi elementi, e cioè la necessità per l’uomo di agire. Che cosa spinge la persona umana ad agire? Verso quali obiettivi tende, che cosa vuole ottenere con la sua azione? Si può rispondere che vuole giungere alla realizzazione di se stessa. Ma dove la persona umana trova la sua realizzazione? Una domanda come questa appare più chiara, anche se non meno complessa, se alla parola realizzazione sostituiamo la parola bene. Dove la persona umana trova il suo bene? Che cosa è bene? Si tratta di domande molto vaste, che allo stesso tempo toccano non solo ambiti generali ma anche spazi circoscritti come la vita quotidiana, i rapporti familiari e quelli di lavoro, i bisogni materiali e quelli culturali e spirituali. Soprattutto si tratta di domande che trovano oggi risposte molto diverse, al limite della contraddizione.

Da diversi decenni ormai si è consumato un processo culturale, in paesi come il nostro, nel corso del quale in un primo momento si sono smarrite quelle che una volta venivano chiamate le evidenze etiche, il riconoscimento spontaneo e condiviso di ciò che è bene e di ciò che non lo è; in un secondo momento si è andato affermando un miscuglio di pluralismo e di soggettivismo, e cioè la presenza di concezioni etiche diverse l’una dall’altra per ragioni religiose o ideologiche, e insieme la rivendicazione crescente da parte del singolo di essere giudice esclusivo di ciò che è bene e di ciò che è male. In altre parole si è esaurita la forma sociale e culturale di un ethos condiviso. La parola ethos dice appunto la condivisione di un insieme di principi e di valori dentro un tessuto sociale e culturale in tutto o in parte omogeneo. Oggi questo si è quasi del tutto logorato e esaurito. È tempo di cominciare a cercare una intesa sui principi e sui valori di fondo a partire non più da un ethos condiviso, ma dal dialogo e dall’incontro tra una molteplicità di visioni etiche e di pratiche corrispondenti. È questa la nuova condizione per trovare forme adatte di condivisione sia pure meno profonde. Se si vuole, è possibile trovare in questa nuova condizione l’opportunità di una presa di coscienza personale maggiore e di un esercizio di più matura e responsabile libertà. È certo però che, per la sua stessa natura, l’etica non può essere mai individualistica, poiché l’individualismo è intrinsecamente amorale, in quanto nega la natura sociale della persona umana e la possibilità della sua adeguata realizzazione a partire di tale costitutiva socialità. Non ci può essere etica nella assoluta assenza di ethos.

Di fronte a tutto ciò, si intuisce come bisogna muoversi con circospezione nel parlare di coscienza, virtù e legge. La coscienza infatti è l’organo, per così dire, proprio dello spirito umano e della sua costitutiva eticità, cioè della capacità e necessità dell’essere umano di realizzare se stesso agendo, portando a compimento la sua umanità. Nell’orizzonte credente la coscienza ha la caratteristica di essere un luogo eminente di riconoscimento della voce di Dio che indirizza e aiuta alla conoscenza e alla attuazione di quel bene per il quale egli lo ha creato, cioè la riuscita dell’essere umano attraverso il suo agire. L’uomo immagine di Dio, porta in se stesso l’impronta della sua dignità e il codice di un’eticità originaria, della destinazione al bene come condizione per raggiungere pienamente se stesso. Questo carattere originario e creaturale della coscienza pone le condizioni di un dialogo costruttivo con ogni essere umano, qualunque sia il suo orientamento e la sua relativa opzione. Il punto da tenere, al riguardo, è che la coscienza svolge questa funzione non in modo astorico o disincarnato, perciò ha bisogno di essere educata e formata al fine di raggiungere la capacità di esercitare se stessa in maniera retta e produttiva.

La virtù costituisce la mediazione necessaria tra le scelte di fondo che maturano nella coscienza e l’orientamento ordinario e quotidiano dell’agire personale. Infatti essa è il risultato di una scelta della persona, depositata in una abitudine nella quale la scelta, liberamente adottata, si rinnova spontaneamente tutte le volte e in tutte le situazioni in cui si rende necessario. Si vede subito il contrasto che tale concetto fa risaltare con lo spontaneismo incontrollato a cui è improntata tanta pedagogia e tanta cultura di oggi. Ora proprio lo spontaneismo – che è poi una variante dell’individualismo – è la negazione dell’etica, la quale afferma il bisogno di formare una capacità di stare insieme con gli altri per il bene di tutti e di ciascuno, con le relative necessarie (auto-)limitazioni che sole consentono di percorrere la via del bene proprio e l’integrazione tra persone diverse in vista del bene di tutti. C’è dietro l’idea di virtù tutta una visione della persona, come bisognosa di mettere ordine e dare armonia ai vari aspetti della sua struttura in vista di un perfezionamento crescente e del raggiungimento di un bene ultimo. Là dove manchi tutto questo, diventa difficile accettare l’idea di limitazioni di sorta. Anche qui deve sopperire il dialogo per trovare punti di incontro che non sono impraticabili.

Il terzo elemento riguarda la legge. Quando parliamo di legge non ci riferiamo solo alla legge positiva inerente le molteplici materie che è chiamata a regolare, ma anche quelle formulazioni più generali e prossime a raccogliere ed esprimere una visione etica in qualche misura condivisa, come i codici etici di cui parlavamo prima, o la costituzione repubblicana o altre forme di codificazione. Qui è bene richiamare la necessità che abbiamo di disporre di esposizioni definite di principi e valori in cui sia possibile riconoscere, dichiarare e diffondere la visione del bene a cui si ispirano scelte e comportamenti di chi la professa. La distinzione tra principi e valori è quanto mai opportuna in questa prospettiva, poiché permette di evidenziare i due lati, soggettivo e oggettivo, della visione morale. Mentre infatti i principi dichiarano ciò che si presenta come indicazione oggettiva anche se non impersonale valida per tutti (qui si tratterebbe di lavorare ancora di più attorno alla categoria di bene comune e ai principi di sussidiarietà e di solidarietà della Dottrina sociale della Chiesa), i valori fanno riferimento ai contenuti di quelli in quanto sono termine di una opzione, di un apprezzamento, della percezione di una validità avvertita innanzitutto per sé e orientata alla condivisione più estesa possibile. Ancora di più su questo punto il dialogo si fa quanto mai fecondo, poiché principi e valori toccano ancora più da vicino l’esperienza umana e la storia delle comunità nelle quali le persone conducono la loro esistenza. Per il credente sta qui il legame con quel vasto spazio che è il retroterra ecclesiale, con la sua dottrina ma anche con la ricchezza dell’esperienza di santità che esso non cessa di esprimere sulla scorta di una storia plurisecolare.

Proviamo allora a trarre qualche considerazione conclusiva. Non senza aver prima fatto rilevare – se non altro per esigenze di completezza – che etica non vuol dire legalità e non equivale a giustizia. Queste si pongono su di un piano esigenziale inferiore. Nella misura in cui è effettivamente possibile assicurarla, la legalità mira a garantire l’osservanza letterale della legge contro le sue eventuali infrazioni; l’etica, da parte sua, mira alla realizzazione del bene della persona, che non può essere conseguito dalla mera osservanza della legge, seppure questa ne sia una condizione necessaria. D’altra parte la giustizia non è data dalla semplice osservanza della legge, ma dalla risposta a tutti i bisogni della persona riconosciuti dalla società, così che essa possa perseguire il suo scopo essenziale; l’etica, rispetto alla giustizia, richiede la ricerca di un bene che non si appaga della soddisfazione di tutti i bisogni, ma vede la persona aperta alla sua sempre più grande realizzazione in una apertura illimitata agli altri e ultimamente alla trascendenza.

Una cosa importante che dobbiamo dire è che c’è una tale sproporzione tra questa impostazione dell’etica e il mondo dell’amministrazione che appare sostanzialmente frustrata ogni intenzione o tentativo di innescare un circuito virtuoso tra etica e amministrazione. E in effetti rischia di apparire velleitaria ogni pretesa di mettere mano a una moralizzazione generalizzata dell’amministrazione. Sono senza dubbio da incoraggiare tutte le opportune forme di intervento sul piano di una legislazione costantemente aggiornata, di una organizzazione sempre più adeguata ed efficiente, di sistemi di promozione e incoraggiamento per un verso, di controllo e di sanzione per altro verso. Queste misure hanno capacità di presa generale ma debole, cioè affrontano la realtà amministrativa nel suo insieme ma hanno scarsa capacità di incidere in profondità. Si tratta di trovare, insieme a esse, misure che abbiano più efficacia in profondità anche su spazi circoscritti.

Tali sono la concentrazione sulla persona, la creazione di gruppi di condivisione e la realizzazione di nuclei esemplari, la diffusione di una visione condivisa di principi, valori ed esperienze, la capacità di stare nel pubblico dibattito.

L’etica è inseparabile da una forma di ethos, e tuttavia ha un carattere costitutivamente personale (cf. M. Toso, La dimensione morale nel rapporto tra etica e pubblica amministrazione, Roma, 16 novembre 2006). È ultimamente la persona il soggetto dell’agire etico, il portatore di una coscienza, di una libertà di scelta, di un agire coerente. La persona rimane dunque il centro di ogni iniziativa volta alla rifondazione e al recupero dell’etica. Ciò comporta molteplici conseguenze di tipo educativo, formativo, organizzativo e istituzionale. Ne considero due: la prima vuole che anche nelle amministrazioni più complesse, estese e anonime, sia la persona a fare la differenza; la seconda dice che le relazioni devono essere oggetto di peculiare attenzione da parte di chi dirige le amministrazioni, perché nel quadro delle relazioni si impari ad apprezzare la dignità della persona umana in tutti i suoi aspetti e a riconoscere la sua razionalità non riducibile a quella tecnico-funzionale, ma allargata alle dimensioni dell’intelligenza pratica e dell’intelligenza emozionale.

Per il resto c’è bisogno di creare rapporti e legami tra persone che condividono principi e valori, soprattutto il senso del bene comune e della solidarietà, la capacità di guardare oltre i confini dell’organizzazione, per inserire nelle dinamiche amministrative positività, creatività, apertura. Un’organizzazione come la vostra Federazione ha una possibilità straordinaria di operare in tal senso e di diffondere una visione condivisa in un dialogo aperto a tutti e in un confronto pubblico onesto e coraggioso, a partire da nuclei sociali e reti di relazioni forieri di nuova socialità eticamente motivata.

Quello del rapporto tra etica e amministrazione è un problema che non conosce soluzioni facili. Ho voluto offrire un contributo a rimettere in movimento la riflessione e la ricerca per trovare direzioni da percorrere. Nella consapevolezza che anima questa riflessione, la fede non si presenta come un’aggiunta consolatoria o risolutoria, ma come l’anima di una intelligenza e di un cammino. Alla fine essa ci dice che, essendo la fede più che un’etica e più che una fonte di indicazioni etiche (come ci ricorda papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 39), essa chiede, a chi si sente di accoglierne l’invito, di cercare una giustizia superiore, di andare oltre la legge e fare dell’esistenza, anche negli ambienti più freddi e anonimi, un servizio alla sequela di Gesù, memori della parola di san Paolo che dice: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4).

1  : Il testo qui riprodotto riporta una conversazione che, per la circostanza in cui è stata tenuta e la finalità di formazione perseguita, non ha pretese di scientificità, ma intende offrire alcune prime sintetiche considerazioni sull’argomento enunciato nel titolo.

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