Per un impegno culturale cristiano nel contesto della società pontina
Ho accettato di avventurarmi su un terreno relativamente sconosciuto – almeno come contesto pontino e più genericamente laziale – mosso unicamente dalla convinzione che è costitutivo della presenza e della missione della Chiesa abitare la relazione circolare tra fede e cultura. La necessità di intraprendere un percorso in tal senso impone un avvio che non può pretendere realisticamente di prendere le mosse come da un punto fermo, bensì di entrare in un processo in corso con l’umiltà di chi ha bisogno di conoscere e capire, e di chi sente, nello stesso tempo, la responsabilità di non potersi sottrarre alle esigenze e alle sfide della fede e della missione della Chiesa nel luogo e nel tempo che è chiamato a vivere. C’è una storia della cultura cristiana in questo territorio e in questa diocesi che bisognerebbe non solo presupporre ma possedere, e c’è una cognizione della complessità della fase storica in atto sufficiente per osare affrontare la questione almeno con la consapevolezza di ciò che richiederebbe una riflessione pertinente sul tema che vogliamo toccare. Nondimeno possiamo utilmente evidenziare alcuni punti fermi, alcune istanze di fondo, che contribuiscano a orientare la ricerca e il confronto. In questa direzione proverò a proporre una riflessione a partire da una nozione di cultura in quanto strutturalmente legata alla fede, per procedere a una caratterizzazione di massima di ciò che potrebbe significare un impegno culturale e sfociare, infine, su alcune prospettive legate al cammino pastorale che si apre dinanzi a noi per i prossimi anni.
C’è da osservare innanzitutto che sia nella fede che nella cultura l’esperienza precede, o meglio contiene, la sua elaborazione riflessa. L’approccio intellettualistico – altra cosa rispetto all’assiduo lavoro intellettuale – introduce un’ottica deformante nella comprensione dell’una e dell’altra, poiché concepisce il rapporto con la realtà improntato a un dualismo tra soggetto e oggetto, tra i quali invece vige una relazione originaria, poiché nativamente essi si danno insieme e sono interconnessi. La fede non è il risultato di un lavoro concettuale al termine del quale, in maniera quasi impersonale e asettica, in base alle ragioni ricostruite, si decide che vale la pena credere. Essa piuttosto nasce da un incontro, all’interno di un’esperienza interpersonale, dall’appello che proviene da una testimonianza o, meglio, da un testimone, percepito simultaneamente come credibile e convincente. L’unità dell’esperienza coglie il soggetto già in relazione con ciò o con colui a cui crede e a cui si affida, nella totalità delle dimensioni che connotano la persona, intelligenza e ragione, libertà e volontà, sentimenti ed emozioni, corporeità e pulsioni. Che poi questa esperienza possa e debba essere sottoposta ad attenta valutazione e analisi è un’esigenza imprescindibile, ma che si innesta in una relazione che sorregge e alimenta lo stesso successivo lavorio concettuale e critico.
Anche della cultura dobbiamo dire che la possiamo adeguatamente intendere solo riconoscendole fondamentalmente una qualità antropologica. Cultura è semplicemente la modalità concreta di essere umani, frutto di un processo di tradizione nel quale si innestano le più diverse condizioni sia tramandate che nuove sul piano storico e ambientale, personale e sociale, non senza l’apporto originale della creatività propria delle generazioni che via via si succedono e si esprimono nei più diversi ambiti di vita e di azione, dalla produzione materiale e tecnico-scientifica a quella giuridica e istituzionale, a quella artistica e intellettuale. Non c’è dubbio che un ruolo peculiare assume la riflessione intellettualmente sviluppata in maniera organica; ma essa risulta tanto più incisiva e pertinente quanto più aderisce alla realtà dell’esperienza da cui promana, a cui si riferisce e nel cui alveo si colloca. In essa svolge un ruolo decisivo l’assetto dei valori, degli ideali, delle concezioni intellettuali che ultimamente ispirano, dal profondo, il sentire e l’agire dei singoli e della collettività, spesso oltre il livello di consapevolezza adeguatamente conseguito dai singoli a loro riguardo. Indubbiamente si tratta di uno scenario per sua natura in perenne movimento, ma questo non consente di legittimare l’utilizzazione strumentale che le varie forme di ideologia sempre tendono a imporre su una realtà che non è un dato inalterabile ma nemmeno un dato manipolabile a piacimento.
Quest’ultima considerazione ci conduce sulla soglia della specifica situazione culturale oggi diffusa, se non imperante, non più segnata dall’omogeneità di una sola tradizione culturale, bensì dall’accostamento e dall’incrocio di una molteplicità di culture; e, ancora o soprattutto, contraddistinta dal superamento del paradigma su cui poggiava lo stesso riconoscimento dell’esistenza di diverse culture, poiché il pluralismo oggi intacca gli elementi comuni su cui si basava una visione ancora largamente condivisa dell’uomo e della società. Tra gli aspetti che caratterizzano questo radicale mutamento di paradigma, si segnala in modo particolare il superamento della categoria di natura e di legge naturale, e dunque del riconoscimento dell’identità e delle caratteristiche costitutive della persona umana, per affermarne la possibilità di modificazione creativa e di manipolazione fino a farne il prodotto di un’illimitata e arbitraria inventiva sul piano bio-fisiologico, psichico, relazionale. Anche tanti che si stracciano le vesti per le prospettive inquietanti di tali radicali trasformazioni, non colgono sempre il nesso intimo che tale processo evolutivo mantiene con la questione religiosa. Non è soltanto in gioco la verità dell’affermazione di Dostojewski, secondo il quale se non c’è Dio tutto è lecito, consentito; o quell’altra che sostiene che quando non si crede più in Dio allora diviene possibile credere a tutto; queste asserzioni, infatti, colgono le conseguenze dell’eclisse di Dio sul piano morale e su quello religioso. C’è un altro livello che la perdita di Dio denota, e cioè quello culturale, poiché tale perdita comporta l’oscuramento anche della natura profonda della cultura, la quale, in quanto espressione dell’identità simbolica – e non solamente della creatività e dell’iniziativa materiale, economica, tecnica – dell’essere umano, è generata dalla capacità tipicamente umana di stare al mondo in quanto apertura al tutto e alla possibile configurazione e relativa intuizione del suo senso. Solo un orizzonte di senso fa dell’agire e del produrre umano una cultura, essendo questa nient’altro che l’articolazione dei significati che – diversamente dagli altri esseri esistenti – conferiscono valore non meramente materiale ai modi e alle forme dello stare al mondo (per riprendere una classica categorizzazione scolastica: il bello, il buono, il vero). La connotazione intimamente e ultimamente religiosa della cultura (in qualsiasi forma assunta e riflessa) è strettamente legata all’orizzonte necessariamente infinito del senso, perduto il quale è la stessa umanità dell’uomo a trovarsi compromessa, ridotto come egli diviene a soggetto che produce, che consuma, che gode, ma senza saperne più il perché.
L’esperienza cristiana ha la pretesa di interpretare in maniera rigorosa e integra l’intimo dinamismo della cultura. La fede infatti non esiste allo stato puro, che sarebbe come dire fuori dalle coordinate del tempo e dello spazio, in modo da poter venire poi associata a qualsiasi cultura storica; essa piuttosto nasce all’interno di una cultura e si configura fin dall’inizio come sintesi di fede e cultura, termine di confronto e punto di riferimento in cui la fede conserva la sua irriducibile originalità e fecondità ogni volta che si consuma l’incontro con nuove culture. Come tale essa diventa principio inesauribile di continua rigenerazione attraverso la produzione di propri specifici elementi culturali, attraverso la fecondazione di tutte le culture con cui viene a contatto e entro cui si inserisce e, eventualmente, attraverso la creazione di forme e gruppi sociali anche culturalmente plasmati dalla sua forza interiore. La storia attesta la varietà dei processi culturali in cui la fede si è espressa, tanto più intellegibile se consideriamo il soggetto storicamente riconoscibile e determinante della sua presenza e della sua azione, e cioè la Chiesa, senza e al di fuori della quale non c’è fede, essendo questa mai riconducibile a mera esperienza soggettiva, bensì sempre incardinata dentro un tessuto comunitario di vita credente.
Un possibile impegno per una cultura cristiana dovrebbe rispondere ad alcune domande che scaturiscono da un’impostazione della questione come quella a cui abbiamo appena accennato. Innanzitutto dobbiamo chiederci quale tipo di cultura cristiana abita il territorio della nostra diocesi. La risposta, sia pure in termini piuttosto generici ma non per questo inesatti, dice che, nell’intreccio con il fenomeno pervasivo del pluralismo delle culture e della destrutturazione antropologica, non si dà certo una sola forma di cultura cristiana nei nostri ambienti; non nel senso che ci sono ambienti culturali puri, isolati e autosufficienti, ma nel senso che sono presenti tradizioni religiose più o meno marcate seppure dentro processi di contaminazione e ibridazione. Bisognerebbe imparare a riconoscere e intercettare questi processi, per capirli e per accompagnarli.
Capirli e accompagnarli richiede innanzitutto, oltre che una visione storica e una qualche lettura sincronica della situazione, l’attivazione di una competenza dialogica, a un duplice livello. Sul piano intraecclesiale bisogna favorire l’incontro e lo scambio tra le diverse sensibilità che provengono da differenti tradizioni regionali, configurazioni locali, peculiarità di esperienze comunitarie. Su di un piano più vasto, si richiede di apprendere la capacità di orientarsi nel complesso mondo di oggi, che non deve essere demonizzato poiché è il mondo amato da Dio, per il quale Cristo è morto ed è risorto, e perché – proprio in forza di ciò – conserva e presenta elementi di bene e di verità che devono essere riconosciuti e valorizzati con apertura di mente e di cuore.
Ma ecco che proprio l’acquisizione di una competenza dialogica si compie dentro un processo di apprendimento e di costruzione che concerne la formazione di una mentalità e di un giudizio di fede. Al cuore del rapporto tra fede e cultura sta la questione della qualità della fede, personale ed ecclesiale. Ora comprendiamo che tale questione è, per un credente, inseparabilmente di fede e di cultura; infatti, non può venire formata una fede che già non sia anima di una esistenza, di un progetto di vita, di uno stile e di una prassi di relazioni ecclesiali e di presenza sociale. La domanda che affiora impellente riguarda perciò la possibilità di un progetto di fede già inculturata da promuovere e far maturare anche in vista di un discernimento all’altezza di questa terra in questo tempo. È un processo di valorizzazione che deve essere messo in opera, nei confronti di ciò che già c’è ma di cui manca adeguata coscienza – e coscienza critica – e che spesso non ha raggiunto ancora capacità di apertura e disponibilità alla fecondazione, alla reciprocità, al mutuo arricchimento. Deve crescere lo stile ecclesiale del nostro essere cristiani, prima come consapevolezza di fede autenticamente comune e poi come operosità inclusiva nei confronti degli altri, per una reciproca purificazione e integrazione, per ritrovarsi attorno all’essenziale e farsi dono delle rispettive positive peculiarità. L’inculturazione della fede nella nostra terra avviene innanzitutto come mutua conoscenza, scambio e reciprocità diffusa, attorno a un centro unificante che è il cuore dell’esperienza credente ecclesiale.
Sul piano dei progetti da elaborare e dei percorsi da intraprendere si tratta di ritrovare l’illuminante intuizione originaria di ogni cammino di fede e di ogni esperienza ecclesiale, e cioè l’incontro con Gesù. Esso è già storia per noi, ma deve diventare esperienza viva di oggi, e prospettiva promettente per il futuro. Sta in questa esperienza il principio sorgivo di ogni possibile cultura credente. Lo vogliamo riscoprire in questa fase della nostra vita e della nostra storia. La ragione non sta soltanto nella centralità di principio che Cristo occupa nel cuore della fede, ma nella necessità di una sua ripresa come anima di vera umanizzazione e di verace comunione ecclesiale. Oggi c’è un bisogno nuovo di questo, come di qualcosa di inedito, per la situazione che configura l’attuale stagione culturale. È questa in fondo l’intuizione che sorregge la scelta, da parte dei vescovi italiani, dell’educazione come opzione pastorale del decennio e del tema dell’umanesimo in Cristo al prossimo convegno ecclesiale nazionale. Oggi l’unità ecclesiale non deve essere cercata in un generico processo di riorganizzazione e di razionalizzazione; essa può essere solo il frutto di un cammino spirituale che veda tutti convergere, o meglio essere richiamati e attirati, dal vero ed esclusivo centro unificante la Chiesa. Anche lo smarrimento che coglie di fronte ai fenomeni personali e sociali di alienazione e di disumanizzazione non può essere contenuto e superato se non dalla prospettiva di speranza che, in Cristo uomo nuovo, la persona umana ha la possibilità reale di riconoscere e di ritrovare se stesso.
Un impegno culturale così ispirato ha bisogno allora di almeno tre livelli di attenzione e di iniziativa:
– Il primo livello è quello della riflessione teologica: ci vogliono strumenti adeguati per orientarsi e fondamenti solidi per non lasciarsi sballottare dai marosi di correnti di pensiero e di omologazioni da mentalità di massa difficilmente dominabili senza disciplina interiore e senza attrezzatura critica proporzionata. È chiaro che, come ogni buona teologia, essa si nutre di esperienza e di condivisione di fede dentro la comunità cristiana, con la responsabilità di offrire un contributo alla crescita della coscienza credente per se stessi e tra i fedeli.
– Il secondo livello è quello dell’interpretazione onesta e critica della situazione culturale dentro e fuori della comunità ecclesiale, che comporta la capacità di mettere a confronto fede e storia, relazioni ecclesiali e processi sociali, stile evangelico e mentalità e prassi dominanti, esigenze morali e dinamiche istituzionali e politiche. Ciò che manca a tanti nostri fedeli non è la sincerità della fede e il fervore della devozione, e nemmeno la fiducia nella Chiesa e la percezione del suo valore essenziale e insostituibile; ciò che manca è la capacità di orientarsi in questo complesso mutamento sociale, di fronte al quale si rimane spesso smarriti interiormente e senza parole pubblicamente. Abbiamo bisogno di parole sensate per dominare interiormente e per comprendere – coerentemente con la nostra maniera di stare al mondo – l’infinita transizione che stiamo compiendo, ormai avviata a una accelerazione dagli sviluppi e dagli esiti difficilmente prevedibili. Dobbiamo farci parte attiva nell’orientarci e nell’aiutare a orientarsi; e questo è possibile non ponendosi fuori dal processo storico e tanto meno dal tessuto ecclesiale, ma assumendosi la responsabilità del servizio specifico del lavoro intellettuale condotto con coscienza credente.
– Il terzo livello è quello della proposta e consiste anch’esso nel farsi parte attiva, ma questa volta con riferimento al mondo che rimane in larga misura al di fuori dell’orizzonte ecclesiale. La proposta consiste non solo nello sforzo di far giungere in maniera onesta, credibile e convincente l’annuncio e la testimonianza della fede cristiana, ma proprio a tale scopo anche nel mostrare la capacità della fede di interpretare e guidare a maturazione crescente la vita delle persone e i processi sociali. Una fede inculturata nel vissuto e nel pensiero di una comunità – di questa comunità – offre una ricostruzione inseparabilmente religiosa e umana di presenza sociale, come tale suscettibile di esibire un esempio, se non un modello, per la convivenza civile nella sua interezza. C’è una domanda che aleggia sul nostro tema e, più in generale, sulla nostra comunità diocesana: quale immagine di Chiesa proiettiamo all’esterno dei nostri ambienti strettamente ecclesiastici (e a volte dovremmo chiederci: anche su quelli)? Quale messaggio manda la nostra Chiesa a chi ci guarda dall’esterno? E ancora – poiché non vogliamo accontentarci di rilevare e descrivere, ma ci sentiamo chiamati a intraprendere e agire, più esattamente a testimoniare e annunciare –: che tipo di Chiesa vogliamo essere? Quale missione sentiamo come Chiesa in questo territorio? Credo che si tratti di un compito al quale non possiamo sottrarci e che va sviluppato secondo un triplice impegno: presentare il messaggio cristiano in maniera intellettualmente competente ed esistenzialmente convincente, anzi attraente; elaborare una visione coerente della sfida che lo stato delle cose in questa stagione culturale complessa e perfino caotica – con le sue luci, oltre che con le sue ombre – lancia alla fede e alla comunità cristiana; ma anche tentare una ricostruzione ordinata della visione e della proposta che la luce della fede è capace di offrire alla convivenza sociale nel suo insieme; imparare a stare nel confronto ed eventualmente nel conflitto, meglio nel dibattito pubblico, a volte carente e talora del tutto assente, promuovendo socialità, nuova consapevolezza, adesione al valore del bene comune e alla ricerca di ciò che esso richiede e consente a tutti in termini di crescente umanizzazione. In questa ottica – e con questa nota chiudo – una delle esigenze etiche e culturali che maggiormente ci interpellano, poiché tocca un nervo scoperto della società di oggi, è costituita dalla diminuzione della estroversione, della tensione verso l’altro, della apertura alla vita, all’educazione, al futuro, insomma alla dedizione generosa e disinteressata agli altri. Se il vezzo degli intellettuali è stato denunciato sempre in termini di autoreferenzialità, una cultura cattolica, cioè ispirata dalla fede della Chiesa, non può che essere universale, per sua natura aperta ai vasti orizzonti delle domande e delle invocazioni di aiuto che salgono dal cuore dell’uomo e dal travaglio dell’umanità.