SALUTO
Convegno sulla violenza contro le donne
6 marzo 2019
+Mariano Crociata
È per me un piacere accogliervi in questi ambienti e potere salutare cordialmente promotori dell’iniziativa di questa Giornata, autorità intervenute e tutti voi partecipanti.
Nel porgervi il mio saluto mi sembra doveroso condividere con voi una semplice riflessione sul tema che avrà la sua adeguata trattazione negli interventi dei relatori invitati.
Credo di dover dire che alla radice della violenza contro le donne c’è un deficit di carattere educativo. Non intendo, così dicendo, solo un difetto di tipo pedagogico, ma innanzitutto un vuoto di carattere culturale che presenta la sua prima ricaduta proprio in ambito educativo.
Ci insegnano gli esperti che per la formazione della persona c’è bisogno di un equilibrio tra l’esperienza di essere accolti, circondati di attenzione, di affetto, di amore e l’esperienza di aprirsi al mondo e agli altri imparando le esigenze e le regole dello stare insieme, e con esse il senso della realtà di ciò e di chi è altro da me, altro da cui distinguersi e con cui relazionarsi. C’è bisogno insomma insieme del principio materno e di quello paterno.
Oggi a prevalere sembra essere soltanto uno di essi, il principio materno, e quindi la sproporzionata predominanza della dimensione affettiva, dell’accoglienza, della premura, della cura, che oscura la presenza e la funzione paterna, impedendo così a chi cresce di superare e di uscire dalla fase narcisistica. Qui non è in gioco innanzitutto la responsabilità consapevole e intenzionale dei singoli padri e madri, ma un modo di pensare e uno stile di vita, che sono diventati pervasivi nell’intera società.
Uno degli aspetti del narcisismo è, infatti, l’incapacità di rapportarsi correttamente con la realtà, perché non si è arrivati a distinguere adeguatamente tra sé e l’altro; l’altro non viene percepito nella sua differenza e distinzione da sé, ma tenuto, per così dire, dentro una bolla fusionale che ingloba sé e l’altro. La conseguenza è quella di sentirsi autorizzati a trattare l’altro, in situazioni limite, come una sorta di prolungamento di sé, una parte di sé di cui fare ciò che si vuole.
Uno degli effetti di tale immaturità umana è l’incapacità di amare, strutturale prima che morale. Incapacità di amare vuol dire che si compie una confusione, per cui non si distingue l’amore per l’altro e il desiderio e il bisogno di appagare se stessi, così che, quando l’altro non corrisponde più al proprio bisogno di appagamento, semplicemente lo si cancella. La forma estrema – ma non l’unica – di tale cancellazione è l’aggressione violenta, capace di giungere fino all’omicidio, quando la frustrazione del proprio appagamento viene vissuta come insopportabile.
La cosa più difficile ma anche più necessaria è, allora, smontare la cultura del narcisismo dentro cui siamo immersi. Si diventa persone imparando a misurarsi con la realtà e con l’alterità, e quindi a distinguere tra amore come volere il bene dell’altro e appagamento delle proprie esigenze, dei propri desideri, dei propri istinti servendosi dell’altro come un oggetto.
Gesù ha detto, e soprattutto praticato, che «nessuno ha un amore più grande di questo: dare sua la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Così riferisce l’evangelista Giovanni, che nella sua prima lettera aggiunge: «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16). Il cristianesimo è (o dovrebbe essere) questo: uscire da se stessi, incontrare la realtà, spendersi per gli altri, come Gesù. In questo senso esso rimane una proposta e una forma insuperabili di compiuta maturità e riuscita umana.