Saluto al convegno su Progettazione degli edifici di culto (02/03/2018 – Latina)

03-03-2018

SALUTO

Convegno Progettazione degli edifici di culto. Architetture e dinamiche celebrative

Latina, 2 marzo 2018

+ Mariano Crociata

Con vivo piacere porto il mio saluto al convegno “Progettazione degli edifici di culto. Architetture e dinamiche celebrative”, promosso dall’Ordine degli Architetti della provincia di Latina. Un saluto cordiale rivolgo agli illustri relatori e a tutti voi intervenuti. In particolare desidero esprimere una parola di caloroso benvenuto a Mons. Giancarlo Santi, la cui militanza, se così posso dire, nel campo dell’edilizia di culto e dei beni culturali, non è solo di lunga data ma anche di peculiare valore e incidenza per la Chiesa nel nostro Paese.

Ho accolto con interesse l’idea di questo convegno; il tema che affronta è uno di quelli che, per quanto non nuovo al dibattito, richiede non solo costante attenzione e aggiornamento ma anche assidua riflessione su questioni che non possono considerarsi risolte una volta per tutte. La stessa Chiesa in Italia ha sviluppato una attenzione costante al tema, come attesta la Nota pastorale della Commissione episcopale per la Liturgia La progettazione di nuove chiese, del 18 febbraio 1993, che rimane punto di riferimento in materia, insieme ad altri autorevoli documenti, tra i quali va segnalata la Nota pastorale della medesima Commissione episcopale su L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, del 31 maggio 1996, che in qualche modo fa corpo con la precedente alla ricerca di una visione d’insieme, che sappia guardare adeguatamente al nuovo da costruire senza distogliere lo sguardo dal patrimonio ricevuto, e nello stesso tempo non può costruire il nuovo secondo lo spirito del concilio Vaticano II senza aiutare a disporre e vivere nel medesimo spirito gli spazi che la tradizione ha consegnato.

C’è una dialettica e una circolarità inesauribili tra nuovo da creare e antico da far rivivere che caratterizzano l’ambito dell’edilizia di culto secondo ragioni storico-culturali e artistiche, e insieme per motivi teologico-spirituali, e quindi pastorali. Sarebbe interessante ripercorrere le trasformazioni della sensibilità e delle teorie dell’arte che hanno influito sull’evoluzione della cosiddetta arte sacra, ma non c’è bisogno di ricorrere a indagini particolari per riconoscere semplicemente che l’artista è immerso nel crogiuolo del proprio tempo senza sopportare separazioni di sorta tra sacro e profano. In questo orizzonte, il concilio Vaticano II rappresenta soprattutto per la Chiesa un varco simbolico, oltre che dottrinale e storico, irreversibile nella direzione di un mondo religioso e culturale non più dominato da modelli canonici di architettura sacra, e non solo. Un varco pone uno stacco, non segna una rottura, e il problema che lascia aperto è quello della coniugazione tra creazione e invenzione alla ricerca del nuovo da un lato, e linguaggi consegnati dalla tradizione, dall’altro, che chiedono di poter rifluire e di rigenerare la nuova lingua che la costruzione delle nuove chiese ormai deve parlare.

Ma che cosa deve essere questa nuova lingua? Essa deve interpretare lo spirito del tempo non come nella semplice trasposizione di una visione – sempre che ne esista una sola e che abbia una sua adeguata legittima espressione – ma nella concrezione del senso della realtà e della vita in qualche modo percepito. Deve però, allo stesso modo, farsi interprete del mondo religioso cristiano, delle sue esigenze attuali e della sua eredità storica. Non dirò che l’architettura sacra si trova attraversata da una tensione insanabile tra libera creatività artistica e criteri imposti da una visione religiosa sia pure evoluta nella sua esperienza dei tempi nuovi. Nondimeno appare chiaro che non si tratta semplicemente di applicare criteri fissati in astratto, ma di interpretare con intelligenza, competenza e disponibilità un bisogno di abitare lo spazio che sappia condensare e condurre a sintesi dinamica senso della tradizione, esperienza attuale di fede e di comunione, evocazione simbolica e appello significativo per l’uomo di oggi.

Non per questo voglio far pensare che propenda per una creatività priva di criteri e di riferimenti, anche se di una applicazione pedante delle norme e dei criteri abbiamo visto troppe volte gli esiti indicibilmente sgraziati che è stata capace di produrre. Quello di cui c’è bisogno per una autentica creatività è semplicemente una felice combinazione, e sarebbe meglio dire una equilibrata mescolanza, di competenza tecnica, di spirito artistico, di conoscenza di fede, che non suppone di essere per forza personalmente credenti, ma di essere capaci di entrare spiritualmente in sintonia empatica con il mondo credente di cui una chiesa è espressione e che è fatta per accogliere e sostenere.

Di questa conoscenza di fede fa parte in modo speciale, nel nostro caso, quel peculiare modo di agire che è l’agire liturgico, manifestazione singolare e originaria dell’essere credenti e comunità credente, cosa di cui vi occuperete in modo particolare oggi. A tutti gli attori in gioco, purtroppo, fa difetto quel misto di competenza e di sensibilità che solo crea opere significative. Non ho difficoltà ad ammettere che tale difetto trova riscontro non solo nei progettisti ma spesso anche nella committenza. Tutti dobbiamo superarci per vincere la sindrome narcisistica del protagonista unico in cerca di ammiratori. Le opere che realizziamo non devono far parlare innanzitutto di noi, ma rendere riconoscibile lo spirito di una grande tradizione come quella cristiana, la capacità della fede di parlare a questo tempo, la forza dello spirito umano di realizzare e far vivere, anche in un’epoca arida come la nostra, un volto della bellezza che vince sul degrado, sul non senso, sulla morte.

Sono convinto della preziosità del vostro sforzo, che si esprime anche in questo convegno. L’augurio è che la sua riuscita si mostri in ciò che sarà capace di suscitare oltre la diligente esecuzione della sua celebrazione.

Buon lavoro!

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