Presentazione del Messaggio per la giornata della pace 2015
alle Autorità istituzionali e agli Amministratori della città e della provincia di Latina
Latina, Cattedrale di san Marco, 1 gennaio 2015
+ Mariano Crociata
È di tutta evidenza la continuità e la coerenza del Messaggio per la Giornata mondiale della pace di questo 2015 con quello precedente. L’anno scorso il Papa ci invitava a guardare alla fraternità come al fondamento e alla via della pace; quest’anno indirizza la nostra attenzione verso ciò che nella maniera più estrema nega la fraternità, e cioè la schiavitù: Non più schiavi, ma fratelli. L’accostamento tra due estremi ha il potere di farci vedere con maggiore chiarezza il contrasto e, nello stesso tempo, il valore in gioco: la fraternità; ma ci consente anche di capire che là dove viene meno il senso della fraternità, lì comincia già, anche se in maniera sottile, una strumentalizzazione che prelude a forme più o meno sofisticate di schiavizzazione dell’altro.
Il Papa richiama le forme più eclatanti e diffuse di schiavitù, solo formalmente abolita e aborrita nel mondo di oggi. Tra i suoi «molteplici volti», egli cita quello del lavoro, un ambito vastissimo nel quale uomini e donne, grandi e piccoli, vengono asserviti a condizioni di dipendenza e di sfruttamento di ogni genere; e poi la galassia dei migranti, su cui le cronache di questi anni trovano materia inenarrabile per diffondersi e informare sulle condizioni disumane in cui il più delle volte essi vengono ridotti; e poi ancora le persone costrette a prostituirsi, le donne forzate a sposarsi o vendute per farlo; e pure tutte quelle persone, soprattutto giovani e bambini, ridotte a materiale per il traffico di organi, o «arruolati come soldati, per l’accattonaggio, […] la produzione o vendita di stupefacenti, o per forme mascherate di adozione internazionale»; infine le persone rapite e tenute prigioniere da gruppi terroristici. La gran parte di questa casistica sembra tanto remota da noi, mentre non lo è affatto: pensiamo a quello che il Papa chiama il «lavoro schiavo» nelle nostre campagne e alla prostituzione perfino lungo le nostre strade, per citare solo due fenomeni eclatanti.
Si tratta di fenomeni che subiscono senza dubbio un contrasto efficace da parte delle forze dell’ordine e dell’istituzione giudiziaria, ma i risultati non sono tali da debellarli del tutto. Ancora più drammatica è la situazione quando si tratta di quei fatti di portata globale, nei confronti dei quali non solo i singoli o gruppi di cittadini sono impotenti, ma che anche i singoli stati spesso hanno difficoltà ad affrontare in maniera adeguata, considerata l’organizzazione transnazionale che il più delle volte sta alle loro spalle. Dobbiamo allora rassegnarci al peggio e lasciar correre? Non credo debba essere questa la risposta né inevitabile il ripiego; piuttosto si tratta di capire le cause per cominciare, anche nel proprio piccolo, ad agire su di esse. Il Messaggio indica tra le radici della schiavitù «una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto»; ad essa associa come cause tutte quelle situazioni che impediscono alla persona umana di crescere: la povertà, la mancanza di educazione, di lavoro e di cultura, e inoltre la corruzione, i conflitti, le violenze, la criminalità.
Prendendo spunto dall’affermazione riguardante la concezione e la coscienza dell’essere umano, che è persona e non può mai essere ridotto a oggetto, vorrei proporvi tre considerazioni a partire da altrettante domande. Per prima cosa dobbiamo chiederci: dove troviamo il fondamento e la garanzia della dignità della persona umana? E poi: come possiamo fare nostra e diffondere una cultura della dignità della persona umana? Infine: che cosa possiamo fare nel nostro ambiente per contrastare la schiavitù e far crescere la fraternità?
È importante la prima domanda, perché se non individuiamo un fondamento stabile che sia anche garanzia della dignità della persona umana, ci ritroviamo presto nel vasto pelago dell’arbitrio e della decisione unilaterale su chi sia degno e chi no. Solo se la dignità intangibile di ogni membro del genere umano – tale dunque in quanto concepito e nato dalla unione tra un uomo e una donna – precede ogni decisione e accordo tra gli esseri umani, è garantita la pari dignità di tutte le persone umane e il rinnegamento di ogni forma di schiavitù. Il pensiero filosofico moderno ha cercato di fissare in una massima, utilizzata anche dal Papa nel Messaggio, il principio della dignità di ogni essere umano: «in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo» (I. Kant, Critica della ragion pratica). La chiarezza di questo imperativo non è riuscita purtroppo ad assicurare tale riconoscimento e il conseguente comportamento. Esso ci obbliga a constatare che senza una coscienza convinta della validità di tale principio, riesce difficile professarlo e conformarvisi. Poiché, però, non è facile pervenire spontaneamente e mantenere tale coscienza, c’è bisogno di un fondamento più saldo del solo pensiero umano per assicurarsi della difesa di ogni essere umano dal pericolo di vederlo strumentalizzato e negato nella sua intangibilità. Come leggiamo nel Messaggio, in realtà là dove si oscura la fede in Dio e nella persona umana in quanto creata a sua immagine e somiglianza, diventa impossibile tenere ferma l’assolutezza di quel principio.
Un esempio ci consente di renderci conto della situazione che si genera là dove tutto è affidato a un giudizio soggettivo privo di riferimenti oggettivi. Oggi l’esaltazione dei diritti individuali si accompagna non raramente alla perpetrazione dei più gravi soprusi nei confronti della persona umana. Nonostante una legislazione che cerca di resistere alla deriva, i fenomeni di dipendenza dalla droga e dall’alcool – per parlare solo di questi – vengono alla fine tollerati in quanto riconducibili a scelte private considerate insindacabili, perdendo di vista non solo la schiavitù in cui si riducono quelli che ne fanno uso, ma anche i danni che comportano alla collettività, sia sul piano delle relazioni interpersonali dirette (pensiamo alla guida di mezzi di trasporto sulle nostre strade), sia su quello delle responsabilità sociali (pensiamo al pericolo che rappresenta chi ormai è assoggettato agli stupefacenti e che eserciti una professione a diretta ricaduta sociale, nell’ambito della sicurezza, della sanità, dell’educazione e così via). Ciò basterebbe a contraddire già la pretesa, in questo ambito, che si tratta di scelte private e individuali, e quindi che ognuno può fare di sé quel che vuole; ancora di più appare l’infondatezza di simile pretesa se si considera che il consumo suppone lo spaccio, e quindi la dipendenza (la schiavitù) da altri. Perciò, a chi voglia obiettare che bisogna distinguere tra schiavitù in cui qualcuno liberamente si riduce (ma si tratta di libertà, in questo caso?) e schiavitù subita da altri, diventa facile rispondere che, almeno nei casi esemplificati, l’una è solo la faccia privata della schiavitù anche esterna da un altro (lo spacciatore o simili). Ne consegue che si rende necessario – non solo da parte dei singoli, ma anche dell’intera collettività – tornare a riflettere seriamente sulla formazione delle coscienze in ordine al riconoscimento della dignità umana inseparabilmente propria e altrui, a partire dalla sua fondazione trascendente. Sussiste una fortissima correlazione tra noi tutti, il cui destino e la cui dignità dipendono insieme da me e dagli altri, e ultimamente dal comune legame con Dio.
La seconda domanda diceva: come possiamo fare nostra e diffondere una tale cultura della dignità della persona umana? Fondamentale, a questo scopo, è imparare a fare spazio nella nostra vita personale e nel nostro modo di pensare a ciò che non è meramente materiale. Finché predomina la convinzione che ciò che esiste è solo ciò che vediamo – gli averi, i soldi, il benessere, il potere e la forza, il piacere e il godimento al primo posto e a ogni costo – sarà difficile non solo riuscire a rispettare sempre gli altri, ma perfino a rispettare la nostra stessa dignità, riducendoci a fare cose di cui dovremmo vergognarci, ma di cui invece finiamo con il non avvertire più la sconvenienza. Chi è credente ha la responsabilità di coltivare la propria fede, con tutto ciò che offre la vita della comunità cristiana, ma anche con una formazione e uno sforzo di riflessione e di confronto che chiarisca i pensieri, rinsaldi le convinzioni anche attraverso una condivisione con quanti ne avvertono il valore e la necessità, così da imparare ad agire in modo diverso. Nel rispetto di chi non crede, l’invito rivolto a tutti è quello di alimentare personalmente e socialmente una cultura del rispetto di tutti, di una uguaglianza nel bene, dello stile e del gusto per ciò che è bello, buono, vero, giusto, e non solo per ciò che è utile, comodo, vantaggioso, piacevole. Alla fine potremmo accorgerci che perdere la dimensione spirituale e trascendente della persona, ha come esito di distruggere anche la dimensione materiale della vita e la bellezza dello stare al mondo, per sé e per gli altri.
L’ultima domanda chiede: che cosa possiamo fare nel nostro ambiente per contrastare la schiavitù e far crescere la fraternità? Il Papa, nel Messaggio, risponde che bisogna sentirsi interpellati «nella quotidianità», scegliere di fare qualcosa di positivo, «impegnarsi nelle associazioni della società civile», «compiere piccoli gesti quotidiani», «non rendersi complici» delle situazioni di schiavitù con cui veniamo a contatto e «non voltare le spalle di fronte alle sofferenze dei fratelli e sorelle in umanità». Tutto nasce dal pensiero dell’altro che dobbiamo tenere presente dentro di noi, e precisamente dal pensiero che l’altro è uno come me, è come me stesso, e ciò che lui subisce offende anche me, e invece ciò che a lui giova benefica anche me. In concreto, bisogna ricordare che è importante che le istituzioni, e tutti coloro che le rappresentano e in esse operano, svolgano diligentemente i compiti loro assegnati. Accanto a molti fedeli esecutori dei compiti affidati, non sono nemmeno pochi quelli che si sottraggono e sfuggono al loro dovere, cercano accomodamenti che lasciano scoperti fronti difficili della vita sociale, che di conseguenza vanno alla deriva senza che alcuno intervenga e ponga mano per fare rispettare almeno la legge e mettere un freno alle forme riconosciute di umiliazione e schiavizzazione delle persone. In secondo luogo è importante che cresca in tutti la coscienza della propria responsabilità civica, troppo spesso oscurata da disservizi e disorganizzazione che inducono a un atteggiamento di generalizzato scontento e lamentela nei confronti di autorità e istituzioni. In questa prospettiva, sarebbe importante promuovere un dialogo tra istituzioni e cittadini, che induca questi ultimi a rendersi corresponsabili dell’andamento della cosa pubblica, con uno spirito di collaborazione che sia vigilante e critico verso tutto ciò che non va bene ma, nello stesso tempo, rafforzi il senso di coesione sociale, che faccia sentire che tutti siamo parte di un’unica grande comunità e che solo insieme potremo superare le difficoltà e far crescere la solidarietà e il bene comune. Infine, non sembri trascurabile l’esigenza di imparare e adottare uno stile di comportamento e di relazione più attento alle persone – a tutte le persone, dovunque e di chiunque si tratti –, più rispettoso e paziente. Uno stile che deve essere coltivato in tutti gli ambienti, a partire da quelli di ordinaria convivenza, per prima la famiglia, ma poi anche gli ambienti di lavoro e quelli di svago.
La fraternità è la condizione vera di una autentica pace; la sua negazione conduce inesorabilmente a veder asservito l’essere umano a cose e persone che ne distruggono la dignità e alla fine la stessa vita. Per noi credenti, vera fraternità è quella che Gesù stesso è venuto a vivere, innanzitutto, e a proporre ai suoi discepoli e a tutti quelli che credono in lui. È soprattutto la fraternità che egli ha reso possibile con il dono della sua vita fino al sacrificio supremo, consegnato alla sua Chiesa soprattutto nell’Eucaristia. Perciò con san Leone Magno diciamo anche noi, in questa ottava della nascita di Gesù da Maria e in questo inizio del nuovo anno solare: «il Natale del Signore è il Natale della pace» (Discorso 6 per il Natale). Facciamo sì che la pace nasca nei nostri cuori e nelle nostre relazioni, con l’impegno a contrastare in tutti i modi ciò che tende a rendere l’uomo schiavo del peccato, del male o dei suoi simili. Allora si potrà dire anche di noi: non più schiavi, ma fratelli.