Presentazione del messaggio per la 50ma Giornata della pace
“La nonviolenza: stile di una politica per la pace”
Domenica 1 gennaio 2017
+ Mariano Crociata
Iniziamo il nuovo anno con una celebrazione all’insegna della pace. Per la cinquantesima volta, grazie a papa Paolo VI, il primo giorno dell’anno lo viviamo come Giornata della pace. Una iniziativa che fa risaltare una spontanea associazione di idee, di sentimenti e di fede, tra la pace e colui che adoriamo come principe della pace, il Cristo Gesù, che con la sua nascita ha voluto inaugurare una nuova era per l’umanità.
Sono grato perché i rappresentanti delle istituzioni e delle forze dell’ordine, delle amministrazioni locali e delle associazioni della società civile hanno accolto l’invito a partecipare a questo momento. Insieme vogliamo così esprimere la nostra adesione all’universale appello per la pace e, in particolare, al messaggio con il quale quest’anno papa Francesco invita alla riflessione e all’impegno per l’edificazione di un mondo più unito e riconciliato. Il tema da lui proposto ha di per sé una portata mondiale. Recita infatti: “La nonviolenza: stile di una politica per la pace”. Tutti siamo consapevoli di quanto il mondo di oggi sia lacerato da guerre e conflitti armati tra nazioni e all’interno di molti paesi; soprattutto siamo a conoscenza delle immani sofferenze che tali violenze procurano a un numero incalcolabile di persone, soprattutto bambini, donne e anziani. Siamo convinti perciò che la politica deve ricorrere a tutte le risorse del dialogo e della mediazione per trovare soluzione a conflitti altrimenti destinati a distruggere popoli interi. Il papa propone la nonviolenza come stile capace di rendere la politica efficace nel perseguimento e nel raggiungimento della pace.
Che cosa significa nonviolenza? Non significa soltanto assenza o rifiuto della violenza. La parola stessa indirizza verso il suo significato originale; non è infatti più usata come l’associazione di due distinte parole, ma come una unica nuova parola: così la scrive anche il papa nel suo messaggio. La nonviolenza è un modo nuovo di rinnegare la violenza e di cercare la pace. Precisamente è un metodo di azione e di lotta sociale che oppone alla violenza e alla repressione armata la resistenza pacifica, attraverso forme di non collaborazione e di boicottaggio. Lo sanno bene coloro che conoscono le figure del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King. Il primo ha guidato una intera nazione come l’India all’indipendenza e il secondo a un passo avanti decisivo per il riscatto della gente di colore degli Stati Uniti d’America. In ambedue i casi, citati nel messaggio del papa, non è solo il metodo della resistenza passiva e della manifestazione pacifica a contare, ma ancor prima l’atteggiamento personale e le motivazioni di fondo. Normalmente non si riesce a rimanere passivi, a non reagire di fronte alla violenza nell’atto che la si subisce, se non c’è una scelta interiore profondamente motivata e lungamente maturata. Nonviolenza non è solo una tecnica da seguire durante una manifestazione pubblica, ma un atteggiamento di fondo personalmente elaborato fino a trasformarsi in scelte di vita privata e pubblica e in decisioni determinate di fronte alle situazioni più difficili, anche violente. Al di là della resistenza passiva di fronte alla violenza, la nonviolenza ha un carattere positivo e attivo, cioè si basa su una scelta e su una volontà decisa a non reagire con gli stessi mezzi di coloro che usano violenza, ma al contrario con atteggiamenti e gesti pacifici.
La nonviolenza si è sviluppata in larghi settori della società e della cultura spesso estranee all’esperienza religiosa, anche se le due figure citate hanno attinto largamente alle tradizioni religiose a cui appartenevano, l’induismo, il buddhismo e il cristianesimo. Di fatto la nonviolenza come stile e come metodo di vita e di azione sociale ha profonde e forti radici nel Vangelo e nella persona di Gesù. Papa Francesco cita l’invito di Gesù a porgere l’altra guancia (cf. Mt 5,39) e quello rivolto a Pietro a riporre la spada nel fodero (cf. Mt 26,52); lo stesso Gesù impedisce che l’adultera venga lapidata (cf. Gv 8,1-11). Soprattutto va ricordato come Gesù insegni che «dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21); perciò è il cuore che ha bisogno di essere risanato e solo un cuore animato dall’amore può ispirare comportamenti non mossi da odio o da desiderio di vendetta ma da volontà di bene, che consiste non «nell’arrendersi al male […] ma nel rispondere al male con il bene» (cf. Rm 12,17-21).
A tal punto giunge tale amore e volontà di bene, che Gesù insegna – e pratica per primo – il perdono illimitato e l’amore dei nemici (cf. Mt 5,44; Lc 6,27). Così facendo, in realtà, Gesù dà espressione a quello che costituisce l’orientamento di fondo della sua vita e, più profondamente, il modo stesso di essere e di agire di Dio. Lo possiamo esprimere così: piuttosto che usare violenza e costringere l’uomo a fare qualcosa contro la sua volontà, Dio preferisce accettare e subire su di sé rifiuto e perfino violenza. È ciò che ha fatto Gesù: alla fine accetta l’ingiusta condanna e la crocifissione, pur di non forzare alcuno a subire la sua volontà e il suo progetto, anche se è per il suo bene. Gesù, e prima di lui Dio Padre, non pensa nemmeno lontanamente di usare del suo potere per costringere e forzare qualcuno per un proprio vantaggio o anche solo per difendersi. Tutto ciò esprime san Paolo quando scrive: «Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, […] per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia» (Ef 2,14-16). Gesù ha eliminato in se stesso l’inimicizia, ha fatto unità e pace accogliendo dentro di sé coloro che gli erano nemici fino ad accettare la loro violenza. E anche se l’inimicizia degli altri ha potuto continuare contro di lui e contro i suoi discepoli, essa non ha trovato più nulla in lui ad alimentarla, al contrario si è dovuta ogni volta esaurire e spegnere di fronte al perdono e all’amore. Gesù fa pace dentro di sé con il nemico lasciandogli sempre aperta la porta e offrendo a lui ogni volta una nuova possibilità di rinunciare all’odio e di accogliere il dono della riconciliazione e della pace.
Il risultato politico (in senso lato) della nonviolenza consiste nella interruzione della spirale della violenza, nella quale azione e reazione si rinforzano l’una l’altra senza fine, o meglio con la fine inevitabile della distruzione di tutti e di tutto. Questo vale senza dubbio nel rapporto tra popoli e nazioni, ma tocca tutti i livelli sociali e tutti i rapporti tra persone, perfino quelli all’interno della famiglia. Quale ispirazione possiamo trarne noi, persone impegnate nelle istituzioni e nelle varie strutture della vita associata, da quelle dello Stato a quelle della Chiesa, o nelle condizioni ordinarie di vita? Potremmo limitarci a un appello alla coscienza e al senso morale di ciascuno, cosa sempre valida e necessaria, ma che lascerebbe senza risposta la domanda su come la nonviolenza sia praticabile nell’esercizio di responsabilità sociali di qualsivoglia genere. Volendo accennare alle questioni così sollevate, mi limito conclusivamente a suggerire tre spunti per prolungare la riflessione personale e svolgere ulteriori valutazioni.
Il primo spunto si riferisce ai fenomeni di violenza così presenti nella nostra società, da quella perpetrata dalle organizzazioni dedite alla malavita fino alla violenza privata, mossa da interessi economici o da motivi passionali e relazionali. Vi troviamo i sintomi di una patologia sociale che va curata e verso la quale la coscienza della società civile non dovrebbe mai attenuare il livello di riprovazione e di condanna morale, senza omettere però l’impegno a capire e rimuovere le cause ambientali e personali che la favoriscono.
Un secondo spunto lo traggo da una considerazione sull’esercizio delle pubbliche responsabilità, piccole o grandi che siano, a tutti i livelli. Qui la violenza prende la forma di costrizione esercitata avvalendosi della propria collocazione gerarchica o da qualsivoglia posizione di potere o di forza comunque detenuta. Vengono in mente le parole di Giovanni Battista alla domanda dei soldati: che cosa dobbiamo fare? «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe» (Lc 3,14). Non è in discussione la legalità, poiché ci riferiamo a comportamenti tenuti entro il perimetro della legalità, ma a quei comportamenti che esercitano una pressione indebita che altera l’autonomia e la libertà delle persone. Essi diventano fonte di tensione relazionale e di una violenza potenziale che cova dentro il tessuto sociale, destinato a produrre malessere fino a manifestarsi con aggressività e soprusi, se non con fenomeni peggiori.
Di qui il terzo spunto. Esso riguarda la persona, cioè ciascuno di noi. Violenza e nonviolenza abitano il nostro cuore. La violenza sorge come emozione disordinata e incontrollata dentro la persona, rivelando uno squilibrio tra le sue forze interiori, le quali, prive di governo e di guida, tendono a esternarsi in maniera istintuale e irrazionale, nel caso più estremo anche in forma di violenza fisica; ma prima di arrivare ad essa, si manifesta in maniera non verbale o con parole cariche appunto di rabbia e di violenza. Spesso ciò che manca è un percorso educativo che conduca le persone a capirsi, riconoscersi e guidare in maniera equilibrata e orientata al bene le proprie reazioni e le energie fisiche, psichiche e spirituali. È un impegno per ciascuno verso se stesso ed è un impegno verso la collettività da parte di chi ha responsabilità pubbliche.
Ne siamo consapevoli anche noi credenti, a cominciare da chi porta responsabilità nella comunità ecclesiale, dal vescovo ai preti, ai diaconi e a molti altri. Chiudo, perciò, rinnovando il richiamo al grave dovere dell’impegno educativo e aggiungendo che un obiettivo imprescindibile di tale compito è la maturazione della virtù della mitezza, memori della parola di Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), il quale ha detto: «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5).