OMELIA
Veglia di Pentecoste
Cattedrale di S. Marco, 8 giugno 2019
+ Mariano Crociata
Come non sentire in questo momento il bisogno dello Spirito? Il bisogno che attraversa la nostra Chiesa, e la Chiesa tutta, non è altro che questo. Quello che ho descritto nella lettera prima di Pasqua come bisogno di respiro, non può che riferirsi ultimamente allo Spirito. La stanchezza che dobbiamo denunciare, sul piano ecclesiale e anche sociale, non è altro che carenza di energia interiore, di forza spirituale, di slancio e di determinazione.
Non sempre lo menzioniamo a proposito, lo Spirito, e non sempre ce ne ricordiamo al momento necessario. Siamo eredi di una cultura efficientistica e produttivistica, che talora appanna perfino le azioni più sacre nel loro statuto costitutivamente pneumatico. A cominciare dalla celebrazione dei sacramenti. L’affanno che circonda certi nostri riti è un sintomo grave di una malattia spirituale, e cioè dell’oblio o dell’oscuramento del protagonista vero e decisivo di ogni azione sacramentale, ma protagonista poi anche di ogni presa di parola e di ogni atto di comunicazione ecclesiale, come pure di ogni gesto, sia esso caritativo, o perfino solo gestionale e organizzativo; perché all’origine di tutto ciò di cui vive la Chiesa c’è lo Spirito.
Solo Lui, l’ospite divino per eccellenza, può ridarci fiducia, coraggio, volontà e decisione; solo Lui può vincere l’abbattimento che ci opprime, che si insinua dentro magari con il pensiero – considerato onesto – di non essere capaci, di non farcela, di non poter riuscire di fronte a una impresa troppo grande. Abbiamo paura di trasformazioni e di novità che realmente sfuggono alla nostra comprensione e alla nostra capacità di iniziativa pastorale. Eppure la storia della fede fin dai suoi inizi è piena di esempi di inadeguatezza umana a fronte di una impresa evangelizzatrice imponente. I Padri e gli antichi autori – uno per tutti S. Giovanni Crisostomo – non si stancano di richiamarci la sorpresa indicibile suscitata da un gruppo di poveri pescatori, provinciali e privi di cultura, che sono arrivati a contagiare con il loro annuncio e la loro testimonianza il mondo intero. Che cosa è questa se non opera, anzi l’opera, eminente dello Spirito?
Oggi abbiamo dinanzi nuove sfide, sentiamo che non possiamo stancamente ripetere solo quello che abbiamo sempre fatto. Abbiamo a che fare con sempre più persone da ricondurre al fervore della vita cristiana (e forse dobbiamo ricondurre noi stessi a simile fervore). D’altra parte dobbiamo sapere che lo Spirito di Dio continua a toccare il cuore di persone che della Chiesa non vogliono sentire nemmeno l’odore; ma se Dio li tocca nel cuore, perché almeno battezzati (per non parlare di quelli senza il battesimo), vuol dire che anche a loro noi siamo mandati.
Come fare? Cosa fare? Dobbiamo semplicemente chiedere, invocare, imparare, abbracciare. Non permettiamo che la costernazione e il disorientamento prendano il sopravvento. Dobbiamo invece risvegliare la fiducia, anzi la fede, che Dio è realmente all’opera, e noi seguiamo a ruota. Se avessimo una tale fede, nessuna difficoltà ci potrebbe fermare, nessuna paura di fallire potrebbe bloccarci, nessun senso di inadeguatezza e di vergogna potrebbe paralizzarci. Ormai da due anni stiamo prendendo coscienza che comunità e famiglie devono allearsi e compenetrarsi per far crescere nuove generazioni di cristiani; e a questo dedicheremo anche un terzo anno. Dobbiamo contrastare lo scetticismo e il disincanto, perché sono tentazione e peccato, quel peccato imperdonabile di cui parla il vangelo, perché contro lo Spirito (cf. Mt 12,31) e che fa dire all’apostolo: «non spegnete lo Spirito» (1Ts 5,19). La certezza di fede che anche le famiglie più sbrindellate e i ragazzi più irriducibili – ma a volte bisognerebbe aggiungere anche le comunità parrocchiali più affaticate e povere – sono essi pure in qualche modo tempio dello Spirito Santo. Vi sembra così scandaloso? Ci sembra proprio impossibile? Sta qui il cuore della sfida. È proprio da questo punto di osservazione che bisogna partire, non dall’idea che genitori e ragazzi sono lontani, irraggiungibili, estranei o addirittura ostili. Sono innanzitutto vicini, non lontani, più di quanto non mostrino i loro atteggiamenti esteriori; amati, visitati, abitati dallo Spirito di Dio prima che noi formuliamo un pensiero o una iniziativa per loro. Bisogna cambiare prospettiva, guardare le persone con un occhio diverso, prenderle da un altro verso, senza preoccuparci che entrino tutte nelle nostre organizzazioni. La salvezza è infinitamente più grande delle nostre organizzazioni; le nostre organizzazioni sono invece a servizio della salvezza che Dio dona come Lui sa e vuole; e anche chi non accoglie la nostra proposta pastorale non trattiamolo come un nemico ma come un amico di Dio, o almeno uno amato da Dio, che ha bisogno ancora di crescere e di capire. Noi auspichiamo che questo avvenga, ma sappiamo che il maggior bene è già in lui, perché sicuramente amato da Dio con l’amore crocifisso e risorto di Gesù, e abitato dallo Spirito che opera in lui in un modo che solo Dio conosce.
Allora, che cosa dobbiamo fare? In primo luogo sempre credere e invocare, invocare e credere, come stiamo facendo stasera. La pagina di vangelo in cui culmina la serie di letture bibliche di questa veglia di Pentecoste ci insegna la dinamica fondamentale della vita cristiana. È una dinamica intimamente spirituale. In pochissime parole sembra dirci due cose contrarie ma in realtà implicate l’una nell’altra. Da un lato la sete che spinge ad andare verso Gesù e il dissetarsi che appaga chi crede in Gesù; dall’altro lato, e si direbbe simultaneamente, il diventare dell’interiorità credente sorgente zampillante capace di dissetare anche altri. Questa simultaneità impressiona, particolarmente noi abituati a schemi rigidi, che ci fanno ragionare così: o si dà o si riceve, se io sono capace di dare allora non ho bisogno di ricevere, se lui riceve allora vuol dire che non ha nulla da dare. Niente affatto. Diamo perché riceviamo; non riceviamo veramente senza simultaneamente diventare capaci di dare. La fonte che noi diventiamo è alimentata dall’ospite divino, e il dono che non ci sentiamo capaci di trasmettere ad altri fluisce spontaneamente da noi se siamo sinceramente aperti e accoglienti verso lo Spirito di cui abbiamo sete e in cui non ci stanchiamo di credere.
Per questo dobbiamo innanzitutto credere e invocare, invocare e credere, perché la fecondità di ogni nostra azione ecclesiale è lo spontaneo e imprevedibile fluire dell’acqua dello Spirito, non l’effetto della nostra efficienza organizzativa; soprattutto le nostre iniziative hanno bisogno di un’anima, di una spinta vitale, che è il soffio e il respiro divino. Ma dobbiamo imparare innanzitutto noi, singolarmente e poi anche insieme, a respirare l’aria che il soffio dello Spirito insuffla perpetuamente in noi. Lasciamo che sia Lui a rianimarci e a sospingerci, chiediamogli il coraggio e la forza di osare ciò che le nostre paure e le nostre inerzie ci impediscono anche solo di immaginare. E allora sperimenteremo che già «possediamo le primizie dello Spirito», che «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,22-27), così da diventare davvero «un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,3-8), perché egli ha compiuto ciò che ha annunciato: «farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete» (Ez 37,1-4); e ancora: «effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie» (Gio 3,1-5).
Si faccia pressante da questa sera la nostra invocazione, perché lo Spirito ci conceda una fede stabile e viva, ci renda carichi dell’entusiasmo che viene dalla sua presenza, ci disponga all’impresa di portare il vangelo alle persone che lo attendono e nelle questioni più urgenti del nostro tempo.