OMELIA
Virgo fidelis, Patrona dell’Arma dei Carabinieri, 2019
+ Mariano Crociata
Credo che abbiamo fatto tutti esperienza del clima che si vive nelle nostre case quando c’è una festa di famiglia. Si sospendono le attività ordinarie, le tensioni e le preoccupazioni si allentano, si scherza e si ride volentieri, si parla del più e del meno, magari richiamando vicende e persone del passato o anche del presente, si rinnova il senso dell’appartenenza alla famiglia e quasi l’orgoglio di esserne parte, ci si sente rafforzati nella propria identità, nel valore della vita e nella gioia di esserci. Quando la festa è passata, ci si ritrova rinfrancati e quasi desiderosi di riprendere la vita ordinaria con nuovo slancio e con spirito fiducioso e determinato.
Una festa istituzionale, come questa dell’Arma, non può avere un tale carattere, intimo e familiare, e tuttavia dovrebbe assumerne qualche aspetto, quali il significato e la responsabilità di appartenerle, il ricordo di quelli che si sono sacrificati, addirittura dando la vita, l’esempio di qualche collega o di chiunque nell’Arma abbia compiuto gesti degni di ammirazione e di emulazione, la spinta interiore a fare ancora meglio.
Perché una cosa del genere possa avvenire è necessario trovare motivazioni profonde, direi di più: motivazioni interiori e ideali. E queste le possiamo riscoprire in una dimensione che solo l’esperienza religiosa è in grado di mobilitare ed esprimere adeguatamente. Devo confessarvi che accolgo con un senso di apprezzamento gli inviti a celebrare in circostanze come questa, perché in una società sempre più secolarizzata, non è un fatto scontato scegliere di dare alla propria festa una cornice e una forma religiosa. Per molti sarà ancora la cosa più ovvia, per altri sarà un dovere o una prassi, per altri ancora espressione di una convinzione e per altri, infine, niente di tutto questo. Che cosa deve essere per noi?
La pagina del libro dei Maccabei ci dà modo di riflettere. Un potere assoluto che non sopporta la diversità religiosa punisce con la morte chi non abiura alla propria fede per accettare quella imposta dal nuovo dominatore. Uguale sarà l’esperienza di molti cristiani nei primi secoli. I fratelli maccabei preferiscono la morte al rinnegamento della propria religione.
Ai nostri tempi, oltre ai fanatici e ai terroristi che infestano varie regioni del globo diffondendo odio e morte, in alcuni paesi o settori del nostro Occidente non troviamo più potenti oppressori che chiedono il rinnegamento della propria religione, incontriamo piuttosto una visione laicista che non chiede di cambiare religione, ma solo di nasconderla, di dissimularla pubblicamente e di relegarla rigorosamente nell’ambito della vita privata. È diventato in alcuni casi proibito, in altri più frequenti considerato sconveniente, portare segni e manifestare esteriormente la propria appartenenza religiosa. La religione nello spazio pubblico a molti dà fastidio, anche se il fastidio lo dovrebbe dare a tutti quando essa viene usata strumentalmente per altri fini che non siano quelli propriamente religiosi.
E qui arriviamo al punto che ci interessa. Abbiamo bisogno della fede – quale che sia, dal momento che siamo ormai in un maturo spazio pubblico libero e plurale – e ne abbiamo bisogno perché abbiamo bisogno di ragioni, di motivi e di convinzioni di fondo per vivere, non solo personalmente ma socialmente. Negare diritto di presenza e di parola alla religione nello spazio pubblico, significa negare che debbano esserci valori e principi condivisi per stare insieme, per formare la società che siamo. E invece una società priva di tale patrimonio condiviso non sopravvive a se stessa. Lo constatiamo nel nostro paese, che con la carta costituzionale consente a noi italiani di riconoscerci e di trovarvi fondamento e unità per la nostra democrazia. Ma in quella carta ci sono principi e valori che sono nutriti alla fin fine dalle nostre fedi, dalle nostre visioni del mondo e dal fondamento ultimo a cui affidiamo la nostra vita. Non si vive di sole regole, ma prima ancora dei motivi che ci convincono che è necessario per il bene di tutti che ci siano quelle regole e che noi dobbiamo osservarle.
Per tali ragioni apprezzo sempre di celebrare in queste occasioni; perché non intendo compiere e far compiere un gesto devoto o bigotto, ma un atto religioso in cui si esprime quanto di più profondo e vero sta al cuore della nostra vita e del nostro stare insieme, ciò in cui ancora largamente ci riconosciamo, nel rispetto più profondo per chi si riconosca in altro. Parlare di Gesù e parlare di Maria allora non stona con una responsabilità sociale e istituzionale, perché nell’uno e nell’altra riconosciamo le presenze e gli ideali che muovono la nostra vita, che ci danno convinzione, forza, speranza, coraggio. E oggi in particolare riconosciamo la virtù della fedeltà, espressione diretta dell’autenticità della fede: fedeltà nella coppia e nella famiglia, fedeltà nel lavoro e nell’esercizio di responsabilità pubbliche, fedeltà collettiva a una identità da cui unicamente trarre forza per affrontare le sfide del presente.
Attorno a queste cose, anche una festa istituzionale come quella di oggi, può far respirare qualcosa di familiare, perché c’è famiglia là dove ritroviamo le persone, i valori e i sentimenti che ci riscaldano il cuore e danno un’emozione gioiosa e un senso di futuro alla nostra vita.