OMELIA
Venerdì 20 settembre 2019
Liturgia del mandato pastorale
+ Mariano Crociata
I nostri appuntamenti celebrativi annuali hanno un carattere ciclico, perché si ripetono più o meno uguali ogni volta. Così è per la celebrazione del Mandato a ministri e collaboratori pastorali. Questo può dare l’immagine di una devota abitudine, che fa piacere rinnovare, oppure può offrire l’opportunità di accogliere e abilitare nuove collaborazioni, oppure ancora concedere una legittimazione giuridica per un servizio che ne pone l’esigenza. Le cose in verità non stanno semplicemente così. Per quanto non strettamente necessaria da un punto di vista liturgico, la celebrazione del Mandato ci ricorda e ci restituisce la nostra “in-competenza” ministeriale e pastorale e ci riporta alle condizioni originarie delle nostre relazioni ecclesiali.
Uso la parola “in-competenza” nel duplice significato di un possesso che non è affidato in proprio e senza riserve, e nel senso di un dominio conoscitivo e professionale autonomamente conseguito. Insomma il Mandato ci ricorda che non diveniamo detentori in proprio, titolari di una autorità e di una capacità autonoma. E tuttavia ci trasmette una chiamata che esige da noi una risposta positiva a cui segue una abilitazione e un invio. Noi dunque – noi tutti, intendo, a cominciare da me e dai preti, pur nella stabilità e aderenza sacramentale del ministero ordinato – dipendiamo, cioè pendiamo in tutto da Colui che ci ha chiamati e ci ha mandati. È solo perché continua ad abilitarci e mandarci ad ogni passo che noi possiamo fare qualcosa.
La nostra celebrazione è innanzitutto un atto di fede sulla natura della nostra identità ecclesiale e sulla relazione di permanente dipendenza dal Signore della Chiesa. In questo senso prendono tutto il loro significato le parole della Scrittura che abbiamo ascoltato, con l’invito alla preghiera, alla moderazione e alla sobrietà. Ci vuole molta umiltà nello svolgimento di qualsiasi servizio ecclesiale; ma umiltà non vuol dire inettitudine e inconcludenza; è il contrario. Lo abbiamo appena udito: «Ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo». Qui c’è tutto lo spirito di ogni nostro servizio pastorale.
E poi il Vangelo, sul sale della terra e la luce del mondo. È meraviglioso ascoltare queste parole, che non invitano a fare cose speciali o ad acquisire tecniche di chissà quale grado di sofisticazione, ma rivelano semplicemente l’effetto che produce l’agire secondo le beatitudini di Gesù. Dunque non l’effetto di parole altisonanti o di miracoli strepitosi, ma del semplice agire secondo il Vangelo delle beatitudini, cioè secondo il Vangelo della fiducia incondizionata in Dio come padre, proprio come sentono e vivono i bambini. Quando si vive, si opera, si è così, allora si produce l’effetto promesso da Gesù: le nostre persone danno sapore e illuminano tutto ciò che sta attorno. La vita prende sapore, il sentiero della vita diventa luminoso.
Così, la nostra azione pastorale sia irradiazione del nostro essere e del nostro agire secondo l’integrità del mandato ricevuto, nella relazione di attaccamento e di dipendenza indissolubile dal Signore della Chiesa.