OMELIA
Festa di S. Maria Goretti
Latina, parrocchia S. Maria Goretti, 6 luglio 2020
+ Mariano Crociata
Lo scorso 24 giugno ricorreva il 70° anniversario della canonizzazione di Maria Goretti. Lo abbiamo ricordato in vari modi in questi giorni. La circostanza suscita una riflessione di singolare attualità, soprattutto se accostata alle parole di san Paolo che abbiamo appena ascoltato: «quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-28). Non si potrebbe dipingere meglio il quadro in cui si rappresenta la festa di oggi. Che cosa di più debole, di più ignobile e disprezzato – almeno nella comune considerazione sociale – di una oscura famiglia emigrata, asservita al lavoro dei campi nell’Agro pontino di fine Ottocento e inizi Novecento, in una di quelle grandi proprietà terriere del tempo oppresse dalla malaria e dalla miseria, sufficiente appena ad assicurare condizioni materiali di sussistenza? E in una famiglia così, una bambina, priva di istruzione, dedita dalla più tenera età a sbrigare le faccende di casa e aiutare la mamma nella cura dei fratellini?
C’è una nota profondamente biblica in questa vicenda: Dio sceglie sempre i più deboli e marginali, i più improbabili per farne i protagonisti della sua storia. E protagonista Maria Goretti lo è diventata. Certamente al momento della canonizzazione, in quegli inizi di anni Cinquanta del secolo scorso, quando l’Italia era lanciata in una impresa titanica come la ricostruzione dopo una guerra disastrosa da ogni punto di vista. Il messaggio che in quel contesto Maria Goretti rappresenta tocca le corde più sensibili della nazione e della cristianità, perché riporta tutti a una esigenza più profonda delle preoccupazioni che tenevano impegnati governanti del tempo, famiglie e lavoratori. E cioè che per ricostruire non ci volevano solo soldi, e molti soldi, ma ci voleva anche un modello di vita, un modello di persona, un senso nuovo di famiglia e di relazioni umane. Ricostruire per cosa? Ricostruire perché?
Ci si rendeva conto – e Maria Goretti veniva a ricordarlo prepotentemente – che non si sarebbe ricostruita nessuna nazione, nessuna comunità, nessuna famiglia, senza la figura di una persona – uomo o donna – solidamente fondata su profondi principi, sul senso del bene e della giustizia, soprattutto sulla dignità e sulla integrità della persona stessa. Insomma, nessuna ricostruzione materiale sarebbe riuscita senza una ricostruzione morale e spirituale. E la percezione di tutto ciò fu così forte, che perfino negli ambienti più ostili alla religione e alla Chiesa, Maria Goretti fu additata come un modello. Tutti sentivano che c’è bisogno di modelli e di ideali per capire chi e che cosa diventare, verso quale futuro tendere, per che cosa lottare.
A settant’anni di distanza, viviamo circostanze diverse e simili per alcuni versi. Non pochi hanno paragonato l’epidemia, che non possiamo dire ancora di avere alle spalle, a una guerra dopo la quale bisogna ricostruire. Il confronto è palesemente esagerato, ma l’accostamento è corretto se consideriamo che non è improprio parlare di un bisogno di ricostruzione. E senza dubbio la dimensione economica è di importanza decisiva in una simile opera, tenuto conto dei danni economici prodotti e della disoccupazione che è cresciuta. Ma dobbiamo aggiungere che, per ragioni che non sono legate solo all’epidemia e che hanno radici più lontane, quella che manca, e di cui purtroppo non sempre si avverte nemmeno il bisogno, è una ricostruzione morale e spirituale. Dobbiamo chiederci: che tipo di persona stiamo promuovendo? Come stiamo facendo crescere e stiamo formando le nuove generazioni? Quali sono i nostri ideali? Quali i nostri progetti? Su che cosa fondiamo la nostra personale esistenza e la nostra convivenza? A quali modelli possiamo guardare per aiutare noi e soprattutto i più giovani a trovare la forza e il coraggio di lottare per una vita e un mondo migliori?
Purtroppo il modello che abbiamo dinanzi agli occhi è quello di un individuo che pensa solo a se stesso e fa – o aspira a fare – ciò che gli pare e piace. Ma si può vivere così? Una società formata da simili individui cittadini può andare avanti o non è programmata per andare a sbattere, presto o tardi?
La risposta che Maria Goretti ci fornisce è semplicemente la traduzione della parola evangelica che abbiamo ascoltato: «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,24-25). Lo diciamo con altre parole ma solo a conferma della medesima insuperabile verità: una vita priva di un senso alto è una vita persa. E una vita senza senso è quella che si accontenta della sussistenza, di passare il tempo, mangiare e godere, incurante di tutto e di tutti, ripiegata su se stessa e priva di ideali e di interessi più alti della soddisfazione dei bisogni elementari, soprattutto una vita indifferente agli altri e a ciò che capita loro. Una vita così è una vita inutile, una vita persa.
Maria Goretti rappresenta un modello semplice ma vivo di dedizione agli altri, di senso della propria dignità, di fedeltà alla propria coscienza, e tutto questo grazie al senso di Dio e alla fede che la anima. Vivere per: questo è il suo messaggio. Per Dio, per gli altri, per un ideale, per un bene più grande. Solo così si vive bene, una vita riuscita, e si costruire un mondo veramente umano.