Omelia per la chiusura del Giubileo (25/11/2016 – Latina)

26-11-2016

OMELIA

Chiusura dell’anno della misericordia – Celebrazione in onore di S. Maria Goretti

Latina, Cattedrale, 25 novembre 2016

+Mariano Crociata

 

Si chiude l’anno giubilare straordinario, ma il tempo della misericordia non finisce qui. L’abbiamo riscoperta nel corso di questo lungo anno proprio in questa chiesa cattedrale e nella Casa del martirio di S. Maria Goretti a Borgo Le Ferriere. Tante sono state le comunità parrocchiali, i gruppi, le famiglie e i singoli fedeli che si sono recati in pellegrinaggio a Roma, alla basilica di San Pietro e alle altre basiliche, ma non minore è stato il numero di coloro che hanno celebrato il giubileo nella nostra diocesi, diventata anch’essa luogo e fermento di misericordia. Adesso sappiamo che la misericordia invocata, celebrata e sperimentata deve diventare compagna assidua del nostro cammino di vita. Solo questa assiduità dirà in quale misura l’anno santo è stato una grazia per ciascuno e per le nostre comunità.

Abbiamo scelto di legare questa chiusura a S. Maria Goretti perché la sua figura di santità è un emblema della misericordia. La vostra partecipazione così affollata dichiara quanto sentiamo forte la sua presenza, come se fosse stata lei personalmente a invitarci e a suggerire delicatamente di raccoglierci stasera, mostrando ancora una volta in maniera palpabile di voler proteggere la città di Latina e l’Agro pontino. Siamo grati ai padri passionisti del santuario di Nettuno e avvertiamo come una grazia singolare la possibilità di venerare le sue spoglie mortali, e così affidare alla sua intercessione le preghiere e le suppliche. Certamente sarà lei a condurci oltre l’anno giubilare che si chiude, aiutandoci a non dimenticare la chiamata della misericordia.

L’accostamento tra il giubileo e la piccola Marietta che abbiamo avvertito fin dall’inizio, scegliendo la Casa del martirio come meta di pellegrinaggio, è stato rafforzato dalla lettera che papa Francesco ha voluto inviare anche alla nostra Chiesa. L’occasione è opportuna per ringraziarlo ancora e fare tesoro del suo messaggio.

Nella figura di Maria Goretti – è la prima riflessione che vi propongo – colpisce la modestia, se non la povertà, della sua condizione sociale e, allo stesso tempo, la qualità di un forte senso religioso, di un attaccamento profondo al Signore unito al desiderio di rimanergli ad ogni costo fedele. Una ragazzina, nemmeno troppo accudita a motivo delle condizioni di vita e di lavoro di una famiglia privata anche della presenza del padre, riesce a sviluppare una grande coscienza della propria dignità e integrità e un vivo senso di responsabilità grazie alla scelta di vivere alla presenza di Dio nell’autenticità della fede e nella semplicità di una costante e fiduciosa preghiera.

Il pensiero spontaneamente si sposta da questo quadro a quello rappresentato dalle generazioni che oggi si affacciano alla vita. Non c’è bisogno di richiamare le migliaia di bambini e ragazzi immigrati non accompagnati, di cui spesso si perde notizia, per constatare come sia fin troppo diffuso, non solo tra famiglie povere, il fenomeno di minori abbandonati a se stessi, non sempre perché senza nessuno, ma perché soli dentro, senza punti di riferimento, senza modelli e aiuti di nessun genere alla loro ricerca di senso, di speranza, di motivi per guardare al futuro. Dobbiamo imparare ad ascoltare l’appello delle nuove generazioni, per cercare di rispondere alle loro attese. Tante volte sono bisogni materiali, prodotti dalla miseria o dalla mancanza di opportunità e di risorse adeguate; altre volte invece incontriamo vuoti spirituali che non basta nessun oggetto superfluo a colmare. Maria Goretti ci invita a guardare con misericordia ai suoi coetanei di oggi, non per diventare più indulgenti di quanto già non siamo, ma per trovare con loro ciò che conta e un vero ideale di vita. Il vangelo ci ha detto che solo se muore il chicco porta molto frutto e che per vivere bisogna avere un motivo per perdere – o almeno per spendere – la propria vita, come Gesù e come Maria Goretti. Se nessun motivo merita di impegnare e, al limite, sacrificare la vita, vuol dire che non c’è nemmeno un buon motivo per vivere. Tanti ragazzi di oggi annegano – almeno mentalmente e spiritualmente – in un muto nichilismo, in una specie di non senso per cui niente ha veramente valore, magari lasciandosi stordire per non pensarci. Dobbiamo imparare ad ascoltarli, non per fornire loro risposte prefabbricate, ma perché possiamo apprendere noi per primi ad ascoltare noi stessi e insieme a loro cercare risposte che non li lascino in balia del nulla.

Il ricordo di S. Maria Goretti – è la seconda riflessione – prende ulteriore risalto per la coincidenza di oggi con la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne promossa dall’ONU. In lei il tentativo di violenza diventa occasione di santificazione e di redenzione, ma ciò non può nascondere o attenuare la gravità estrema del gesto del suo aggressore, che nasce non solo da un disordine morale frutto di un vuoto educativo ma anche da una cultura, soprattutto maschilista, che continua a non considerare la donna una persona, bensì la riduce a un oggetto, a una macchina, a una proprietà. C’è da rivedere l’impianto educativo, ancora una volta, del rapporto con le nuove generazioni e da far crescere una cultura della dignità assoluta di ogni persona e del valore uguale e intangibile della donna rispetto all’uomo. È la premessa della cultura della misericordia di cui parla papa Francesco nella sua ultima Lettera Misericordia et misera: «la cultura della misericordia si forma nella preghiera assidua, nella docile apertura all’azione dello Spirito, nella familiarità con la vita dei santi e nella vicinanza concreta ai poveri» (n. 20). Da qui deve partire il contributo di noi cristiani anche alla lotta contro la violenza perpetrata sulle donne.

La nostra santa – è la terza riflessione – è anche modello di una misericordia che raggiunge il suo vertice nel perdono e perfino nel perdono dei nemici. «La misericordia – scrive il Papa nella citata Lettera (n. 2) – è questa azione concreta dell’amore che, perdonando, trasforma e cambia la vita». Sappiamo bene che il primo e supremo modello di tale misericordia è Dio stesso, il quale «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), e insieme a lui Gesù, che sulla croce prega il Padre di perdonare i suoi uccisori (cf. Lc 23,34). Anche la vicenda di S. Maria Goretti è segnata dalla misericordia che perdona: già nel momento in cui le vengono inferte le ferite mortali, secondo la testimonianza dello stesso aggressore, e poi nonostante le condizioni in cui versa nel letto di ospedale ormai segnata da una morte certa, il suo animo sperimenta una grande serenità perché saldamente afferrata dalla mano di Dio e dal suo amore, non teme più nulla, interiormente memore di quanto dice il vangelo: «non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo e dopo questo non possono fare più nulla. Vi mostrerò invece di chi dovete aver paura: temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geènna. Sì, ve lo dico, temete costui» (Lc 12,4-5). Marietta non esita a perdonare il suo aggressore e a dichiarare di desiderare che egli possa stare con lei in paradiso. L’uccisore viene graziato dalla vittima ben prima che egli possa maturare la volontà di pentirsi. Quel perdono, però, e quella parola di Marietta lo scaveranno interiormente nel corso dei lunghi anni di carcere portandolo progressivamente a una conversione che lo riconcilierà con Dio, con se stesso, con la vittima della sua cieca violenza. È una testimonianza eloquente di come la misericordia trasforma e cambia la vita. E noi, che non conosciamo motivi così estremi per risentirci e circostanze così drammatiche da perdonare, siamo capaci di risentimenti duraturi e di odi inestinguibili per motivi di poco conto e per circostanze banali. Dopo il giubileo, per tanti di noi è come se il tempo della misericordia debba ancora cominciare.

Abbiamo bisogno di ricominciare a dare il giusto peso alle cose. Facciamo questioni per motivi futili e ci gettiamo dietro le spalle pesi gravosi che la nostra coscienza cerca di nascondere a noi stessi prima che agli altri. Ci vuole un approccio diverso alla vita, come possiamo apprendere da S. Maria Goretti e dalla sua triplice lezione sulla misericordia. La prima è l’esperienza personale della misericordia, quella cioè di scoprirsi benvoluti, apprezzati, amati e perdonati da Dio. La seconda lezione che essa ci offre viene dall’esempio della sua vita, da quella spontanea capacità di perdonare che esercita nelle condizioni in cui chiunque di noi si sentirebbe in diritto di reagire e di inveire violentemente, almeno a parole, contro chi ci ha fatto tanto male. È un evento che non finisce di sorprendere e impressionare. La nostra devozione non può fare a meno di misurarsi con questo atteggiamento che letteralmente attualizza nella vita di questa fanciulla il modello di ogni perdono dei nemici che incontriamo in Gesù sulla croce. La terza lezione, infine, è quella dell’intercessione e della preghiera che la piccola santa continua ad esercitare dalla gloria di cui ora gode nel cielo di Dio. Noi crediamo che lei veglia su di noi, sulla nostra città e sulla nostra diocesi.

Con lei il tempo della misericordia per noi si prolunga quanto il tempo della nostra vita. Finché non accettiamo di avere bisogno di misericordia e finché non impariamo a perdonarci a vicenda non potrà esserci rinnovamento personale, cambiamento di vita nelle relazioni, trasformazione sociale. Per imparare a farlo ci vuole un cuore pieno di Dio, un cuore mite e umile come quello di Gesù. Troppe volte ci rovina il volerci sentire migliori, superiori e più forti degli altri; abbiamo paura di essere deboli e piccoli, anche se «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti», come abbiamo ascoltato da san Paolo. S. Maria Goretti ci aiuti a imparare l’arte dell’umiltà, a lasciare che Dio ci tocchi il cuore, ci faccia accogliere il suo amore e ci dia la gioia di diffonderlo attorno a noi oltre i confini della ecclesialità, come una famiglia che si allarga per l’accoglienza di sempre nuovi figli e fratelli. 

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