Omelia per il Mandato agli operatori e collaboratori pastorali (05/10/2018 – Cattedrale di Latina)

05-10-2018

È sempre il Signore a convocarci, ma non sempre lo fa alla stessa maniera. Così nella convocazione di oggi c’è una componente maggiore di iniziativa da parte nostra. Non adempiamo infatti ad una prescrizione liturgica né, tanto meno, ad una ricorrenza di qualsivoglia genere; piuttosto rispondiamo ad un bisogno, che avvertiamo all’inizio di un nuovo anno pastorale, di chiedere luce, energia e vita allo Spirito di Dio. Qui si trova rappresentato ogni servizio – da quello del vescovo, a quello dei presbiteri e dei diaconi, a quello dei catechisti e dei formatori, dei lettori e degli accoliti, degli animatori della liturgia e del canto, dei ministri della Comunione, a quello degli animatori e collaboratori della carità, delle missioni, di tutte le forme di azione pastorale a cominciare dai consigli pastorali, della buona amministrazione e della gestione delle nostre parrocchie e altri ancora – e ognuno sente nascere la medesima invocazione, senza distinzione tra ordinati, ministri istituiti e collaboratori di ogni genere.

Tutti infatti sappiamo di essere stati chiamati, tutti indistintamente. Nessuno si è incaricato da sé. A cominciare da me, che sono stato mandato e mi trovo tra voi senza immaginare nemmeno la vostra esistenza, ma avendo imparato a conoscervi, a stimarvi e ad amarvi, e rimanendo tra voi con la volontà di donare tutto me stesso fino a quando qualcuno che ne ha l’autorità e la responsabilità mi incarica di restare. Lo stesso vale per ognuno di voi. Questo vuol dire che nessuno è padrone del proprio ministero o del proprio servizio, nessuno ne è detentore esclusivo e insostituibile. Perfino per coloro tra noi – come presbiteri e diaconi – che hanno ricevuto un ministero ordinato, che inerisce – diciamo pure la parola – ontologicamente alla persona, il suo esercizio dipende non da una propria volontà autonoma ma da un incarico che viene affidato. Non a caso risuona in queste parole l’eco dell’esperienza paolina: «Guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato» (1Cor 9,16-17).

Per questo motivo ricorriamo con fiducia a chi può darci veramente aiuto nell’adempimento della missione pastorale, perché da Lui viene innanzitutto l’incarico che ci dà modo di agire. Così scopriamo il paradosso nel quale ci troviamo e la tensione spirituale che dobbiamo mantenere alta tra i due termini o atteggiamenti propri del nostro servizio pastorale: dedicarci con tutta la passione e l’amore di cui siamo capaci, ma con il distacco e la libertà di chi sa che non è suo possesso ciò che sta trattando. Questo discorso sembra duro, perché è umano attaccarsi a persone, ambienti, attività, così da sentirli come parte di sé e quasi cosa propria. Ma dobbiamo sempre ricordarci che la Chiesa e le persone sono di Dio e che amare e servire tutto per Lui e in Lui non è perdere ma guadagnare per davvero. Possediamo veramente non ciò che ci teniamo gelosamente stretto e tratteniamo solo per noi stessi, difendendolo dagli altri e quasi impedendo loro di avvicinarsi, ma ciò a cui ci dedichiamo con piena generosità e libertà senza pretendere nulla e quasi contenti di veder andar via chi è chiamato a prendere la propria strada. Possediamo veramente non ciò che cerchiamo di accaparrarci, ma solo ciò che ci viene liberamente donato. È questa l’esperienza della fede, perché esperienza eminentemente evangelica («Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà», Mt 16,25; Lc 924): esperienza evangelica che apre ai doni imprevedibili di Dio, esperienza della famiglia di Gesù unita solo nella ricerca della volontà di Dio.

Siamo qui, dunque, a chiedere luce e forza al Signore perché ci dia di corrispondere al meglio alla chiamata che ci ha rivolto e che ha voluto rinnovare anche per questo nuovo anno pastorale. Un anno segnato dagli impegni che ci sono stati prospettati nelle scorse assemblee diocesane e che troverete condensati nella Lettera che vi verrà distribuita a conclusione della celebrazione.

Mi piace cogliere qualche spunto dalla liturgia della Parola dentro la quale in verità si è già svolta la nostra riflessione. Abbiamo sentito la formidabile espressione del libro di Giobbe: «Ecco, non conto niente: che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca». Giobbe ha voluto discutere con Dio, ha preteso di giustificarsi e di difendersi e quasi accusarLo per come ha agito con lui; ma ora si rende conto che si è misurato con qualcosa e con qualcuno di incommensurabile, che egli non è in condizione nemmeno lontanamente di capire e di trattare. Si rende conto che non ci si può mettere al posto di Dio, anche quando ci sono cose che vorremmo spiegare, o cose ingiuste o che fanno soffrire. «Mi metto la mano sulla bocca»; come dire: attenzione a non pronunciare parole stolte. Noi gente di Chiesa troppo spesso pecchiamo di questa presunzione: di sapere tutto e di avere una risposta per tutto; ma non rendiamo onore a Dio e alla verità quando facciamo così. Parlare di Dio, come avviene ordinariamente nella predicazione e nella catechesi, non equivale a pretendere di spiegare tutto e di avere una parola su tutto. Parlare non è più religioso di tacere. Al contrario: prima c’è sempre e a volte soltanto il silenzio dell’ascolto. Imparare a tacere di fronte a Dio, in atteggiamento di fede e di adorazione, è una qualità alta della spiritualità cristiana non inferiore a quella di chi sa parlarne, da praticare e trasmettere a quanti ci sono affidati. Svolgendo i nostri servizi, non pretendiamo dunque di metterci al posto di Dio, di sindacare su tutto e di spadroneggiare su tutti; impariamo, invece, e trasmettiamo il senso del mistero insieme alla fiducia in Dio.

Il Vangelo ci parla proprio della catena del mandato che fa risalire i nostri anche più umili incarichi al Padre di tutti, attraverso il Figlio e fratello nostro Gesù, al punto che il rifiuto nei confronti del nostro servizio diventa rifiuto di Gesù e rifiuto di Dio, semplicemente. Questa parola pone nella giusta luce le difficoltà, le fatiche apparentemente infeconde, le delusioni del nostro ministero, e a volte perfino il senso di inutilità che ci afferra. Anche questo ci prospetta l’inizio del nuovo anno, non soltanto traguardi e successi. Ma non dobbiamo lasciarci sgomentare; non solo perché lo stesso destino è toccato a Gesù, ma perché ultimamente è Lui a farsi carico dell’accoglienza e del rifiuto. Come il nostro servizio è sempre nel nome del Signore, così i suoi effetti hanno sempre Lui come ultimo riferimento, sia nel caso della accoglienza che nel caso del rifiuto. Per questo ci sentiamo in profonda comunione con il Signore e tra di noi; soprattutto sentiamo di essere parte di un’opera molto più elevata del grado dei nostri impegni e delle nostre responsabilità, perché opera corale di tutti noi e, soprattutto, opera di Dio che rinnova la Sua benevola condiscendenza chiamandoci a servirLo nella Chiesa, in mezzo ai fratelli e nella società tutta.

+ Mariano Crociata

Rif.: Gb 38,1.12-21; 40,3-5; Lc 10,13-16

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