Omelia Messa in suffragio di don Giuseppe Mazzoli (14/04/2021 – chiesa parrocchiale di Norma)

14-04-2021

OMELIA

Norma, chiesa parrocchiale, mercoledì 14 aprile 2021, seconda settimana di Pasqua

Messa funebre in suffragio di don Giuseppe Mazzoli

(Ap 21,1-7; Mc 15,33-39; 16,1-6)

+ Mariano Crociata

 

A otto giorni dalla morte, siamo qui a celebrare in suffragio del nostro fratello sacerdote Giuseppe Mazzoli. Era nato il 12 marzo 1939 e ha speso la sua vita di sacerdote quasi per intero nella cura pastorale della parrocchia di S. Matteo in Latina, oltre che come docente di religione cattolica nella scuola pubblica. Nel 2015 aveva dovuto ritirarsi dal ministero per ragioni di salute; ha vissuto questi anni con un senso profondo di fede e di offerta della propria vita nella preghiera per la Chiesa diocesana, con la quale fino all’ultimo si è sentito profondamente unito, intrecciando amicizia e contatti con tanti confratelli.

Se gli accadimenti, per un credente, non sono mai casuali, allora a parlare a noi oggi è la persona e la vita di don Giuseppe, e insieme la causa ultima della sua morte, e cioè il virus che ancora fa strage attorno a noi, e infine il tempo liturgico pasquale. Proprio questo tempo ci dà il senso più esatto di ciò che stiamo celebrando. Perché un prete, come guida e modello di ogni fedele, è un testimone per eccellenza della risurrezione di Gesù. Lo è con il suo ministero, ma lo è soprattutto con la sua persona e la sua vita. E la vita parla con tanto maggiore eloquenza quando proprio le parole sono costrette a ridursi, e a significare rimangono la presenza, i gesti, i contatti e le intenzioni che tutto ciò riesce a manifestare. Quando sotto il peso della malattia si riesce a vivere nella serenità dello spirito, in un clima di preghiera e di offerta, di attenzione a tutto ciò che accade senza dimenticare il senso della propria esistenza e della propria missione, allora non c’è da andare a cercare chissà quali dimostrazioni di iniziativa religiosa, poiché il Signore si rende presente e si manifesta. A me pare che proprio una testimonianza del genere abbiamo incontrato in don Giuseppe, insieme alla memoria, in molti ancora vivissima, del suo spirito di accoglienza e di prossimità come sacerdote e come pastore dal cuore grande e dall’animo buono.

Non sempre e non tutti capiscono. Fa sempre impressione leggere le osservazioni di mera curiosità, se non di indifferenza e di scherno che circondano Gesù mentre sulla croce soffre l’estrema agonia fino all’attimo in cui emette l’ultimo respiro. Ma non manca chi invece riconosce il dramma del Figlio di Dio che si sta consumando, come il centurione, uno straniero che sembrerebbe il meno adeguato ad apprezzare una circostanza come quella nella quale si è venuto a trovare per dovere d’ufficio, e che pure arriva a pronunciare una vera e propria professione di fede, riconoscendo il tratto divino unico e inconfondibile di Gesù nell’atto del suo morire. Davvero ciò di cui abbiamo bisogno è un animo sensibile alla sofferenza che si consuma in nostra presenza, uno sguardo attento alle vicende e alle persone che incrociano il nostro cammino e attorno a noi, un senso vivo della portata di tutto ciò che accade. Abbiamo bisogno di sensibilità e di umanità, di benevolenza e di buona disposizione d’animo. La fede si innesta sempre sul terreno di una umanità buona; non si accontenta di avere delle nozioni religiose, e nemmeno di pratiche religiose esteriori. La vera religiosità è innanzitutto del cuore e la fede nasce da una fiducia di fondo nella vita e nel suo fondamento ultimo che è Dio e che si è manifestato a noi in Gesù. Allora con un cuore pieno di fiducia e di bontà, e con i gesti che esprimono una fede sincera che si affida al Signore, si rinnova l’esperienza delle donne che vanno al sepolcro con la devozione e l’affetto di discepole che scoprono la verità e la gioia dell’inaudito: Gesù non è nel sepolcro, perché è vivo.

Mi piace pensare che don Giuseppe sia stato un uomo e un prete dotato di questa sensibilità credente che fa riconoscere la presenza del Signore nella propria vita e nella storia. Il suo sguardo si è aperto, oltre la prova anche estrema che lo ha portato via da questa vita, a quell’orizzonte infinito che la pagina di Apocalisse svela: cieli nuovi e terra nuova. Non deve essere questo il sogno segreto, il desiderio coltivato, la speranza fondata di ogni credente sottoposto alla prova estrema come quella di Gesù? Il suo grido sulla croce che sembra rimproverare Dio per il suo abbandono, attesta in realtà l’estremo affidamento al Padre, al quale lancia la cruda verità della propria condizione sofferta fino all’annientamento, ma per dire la propria suprema fiducia e il proprio amore, quando non ci sono più parole di rito o di circostanza all’altezza, ma solo la nuda verità della tentazione della disperazione; ma in lui tale tentazione  viene sopraffatta e vinta dalla fede incrollabile in Dio, che Gesù abbraccia come Padre perfino dentro la più grande oscurità e nella negazione di ogni evidenza.

Tutto ciò che sentiamo riferire, da un anno ormai, dei morti per covid, in solitudine e con grande sofferenza, è stato vissuto in prima persona da don Giuseppe. Ma siamo sicuri che la fede che lo ha consacrato al Signore per tutta la vita, lo ha sostenuto nel passaggio supremo, con lo sguardo proteso verso la città santa e verso Colui che è l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, sempre fedele alle sue promesse. Impariamo anche noi questa fedeltà suprema capace di attraversare le prove più grandi. Lo chiediamo al Signore sostenuti dalla testimonianza di don Giuseppe, che quella prova ha superato da credente e da sacerdote, che ha consacrato se stesso al Signore risorto nel servizio di una vita che è diventata offerta gradita nel sacrificio di se stesso, presentata non solo sull’altare, ma soprattutto sul letto di morte a Colui che ci ha salvato offrendo se stesso sull’altare della croce.

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