Omelia Messa del Crisma – Mercoledì Santo (28/03/2018 – Cattedrale di Latina)

28-03-2018

OMELIA

Messa del crisma

Mercoledì 28 marzo 2018

+ Mariano Crociata

Il motivo che attraversa e lega tra loro le tre letture della Messa crismale è quello dell’unzione. E non potrebbe essere altrimenti nella celebrazione che consacra il crisma, l’olio dei catecumeni e l’olio degli infermi per i sacramenti che istituiscono e rafforzano la vita cristiana, e trasmettono la grazia del sacerdozio comune dei fedeli e del sacerdozio ministeriale; si rinnova in questa maniera quanto dice l’Apocalisse di «Gesù Cristo, il testimone fedele»: «ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre». Nello stesso brano di Apocalisse non ricorre la parola unzione, ma una considerazione attenta permette di cogliere l’intima connessione che essa presenta con le altre due letture. Vi si parla infatti di «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» e di «quelli che lo trafissero». Proprio da questo impariamo che l’unzione non è un atto magico o puramente evocativo, ma un intervento trasformante che riempie della forza di Dio e del suo Spirito per compiere la missione che egli affida. Cristo Gesù rende noi tutti sacerdoti non con un atto rituale, ma con il suo sangue. L’atto rituale semmai lo rinnova e lo presenzializza. L’essere di Gesù per eccellenza l’Unto di Dio lo si vede sulla croce e lo Spirito che viene effuso sui credenti in lui è lo Spirito che si sprigiona dal suo sacrificio ed esplode come potenza di vita nella risurrezione. Per questo la Chiesa colloca la Messa crismale a ridosso del Triduo pasquale; perché è nella Pasqua di morte e di risurrezione di Gesù che lo Spirito effonde la sua potenza vivificante in lui e, per lui, in noi.

Queste considerazioni orientano a vedere e a capire un punto al quale non siamo portati a prestare sempre adeguata attenzione. Riteniamo infatti l’unzione come una abilitazione ai sacramenti da celebrare, riducendola così a un gesto rituale efficace ma di portata vagamente simbolica. Il brano di Isaia, ripreso dal vangelo di Luca, in realtà opera un accostamento che infrange ogni rigido schema rituale per irrompere prepotentemente con la vita. L’unzione viene conferita insieme a, se non allo scopo di, mandare ad annunziare, fasciare, liberare, scarcerare, consolare «gli afflitti di Sion». Il rito entra nella vita, è per la vita. L’unzione è forza prorompente che dà nuova linfa ai viventi e li spinge a spendersi per i fratelli, per tutti i fratelli, a cominciare dai più lontani, dai più periferici e dai più disgraziati.

Quale messaggio trasmette a noi questa Parola? Essa ci raggiunge nel corso del nostro cammino in un anno impegnato a far diventare le nostre parrocchie comunità vive e reali, nelle quali le relazioni personali e la vita comunitaria sono plasmate e modellate dalla comunione di grazia che circola tra di noi come tra le membra di un unico corpo. Dopo un primo passo, che invitava a camminare insieme, sinodalmente, con una partecipazione attiva e responsabile dentro ogni comunità; e dopo un secondo passo impegnato a costruire la comunità in un clima e in uno stile di fraternità cristiana, questo terzo passo, che oggi vogliamo indicare, consiste nell’allargare lo sguardo agli estranei, ai lontani, soprattutto a quelli che versano in gravi difficoltà, siano esse di ordine materiale e fisico, morale, culturale o spirituale. Noi veniamo battezzati, cresimati e – quelli che lo siamo – ordinati, per coinvolgere altri, per estendere ad altri la gioia dell’esperienza cristiana.

Il messaggio che oggi il Signore ci affida riguarda le nostre comunità e dice che esse non sono vere comunità cristiane se non sono animate da attivo e attuale spirito missionario. Qualcuno può ragionevolmente pensare – e non pochi lo sostengono espressamente – che la missione può arrivare solo alla fine, dopo che uno è stato debitamente formato e dopo che la comunità ha raggiunto la sua maturità nella partecipazione, nella corresponsabilità e nella fraternità. Nella realtà non è così, anche perché se si dovesse praticare tale scansione metodica, il tempo della missione non arriverebbe mai, come purtroppo di fatto accade per lo più anche tra di noi. Il senso della missione, e diciamo pure della missione rivolta proprio ai più lontani anche geograficamente, è costitutivo, fin dall’inizio, della fede cristiana e della identità della Chiesa, come del resto ci insegna il Concilio Vaticano II. Si comincia sempre anche con la missione, perché essa si attiva nel momento stesso in cui costituisce la Chiesa e ogni comunità cristiana. E se ce lo stiamo ricordando in questo terzo passo del cammino di quest’anno, è solo per ordine di esposizione non per successione di attuazione e per gerarchia di importanza.

Del resto, è Gesù stesso che lo insegna perché innanzitutto per primo lo mette in pratica. I suoi discepoli, 72 secondo Luca (cf. 10,1-12.17-20), li manda con la forza della sua parola mentre ancora sono – per così dire – in formazione, durante il suo peregrinare per le vie della Palestina, quando ancora daranno ampia dimostrazione di incredulità, di debolezza e di incomprensione nei confronti di Gesù. E anche quando invierà i dodici dopo la risurrezione, è nella forza dello Spirito che li manda, non certo in forza di una loro completata formazione di sorta (cf. Mt 28,16-20).

Questo vuol dire che il credente e la comunità cristiana si formano vivendo, strada facendo, portando agli altri ciò che essi stessi stanno imparando a conoscere, a praticare e a vivere; di più, essi hanno bisogno, noi abbiamo bisogno, di portare ad altri la testimonianza e l’annuncio della fede proprio per imparare a conoscere, a praticare e a vivere di fede. La fede si rafforza donandola, cresce quando la testimoniamo e la portiamo ad altri, non quando la teniamo gelosamente per noi stessi. È il talento da investire e non da conservare seppellendolo sotto terra (cf. Mt 25,14-30). Dobbiamo ammettere che se non abbiamo accolto fino in fondo e assimilato la fede, è perché siamo rimasti chiusi in noi e tra di noi, e non ci siamo lasciati spingere dal soffio dello Spirito ad andare fuori, ad uscire dai nostri ambienti asfittici per incontrare e condividere con tutti la nostra esperienza credente e la presenza del Signore. Dobbiamo chiedere al Signore di fare nostra l’ansia che lo ha divorato e consumato, che lo faceva pregare in prossimità della sua passione così: «Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,18-21).

Qui sta la ragione ultima della nostra vita e di ogni ministero. In questo giorno, esultiamo per il dono dell’unzione che ha arricchito infinitamente la nostra vita con l’alito vitale e corroborante dello Spirito. Lasciamo che esso ci spinga al largo, perché solo così le nostre comunità diventeranno veramente vive e fraterne, unite, solidali e accoglienti. Lo dobbiamo sentire, questo richiamo, innanzitutto noi presbiteri, che abbiamo ricevuto l’unzione nelle mani per portare la salvezza mediante i sacramenti della nostra fede e oggi rinnoviamo le promesse sacerdotali: quanto più saremo missionari tanto più saremo costruttori di comunità E accanto ai presbiteri, voi diaconi, con il vostro ministero ordinato per il servizio alla Parola, per la liturgia, la carità e la comunione, chiamati a fare da ponte, a mettere in relazione vita di Chiesa e vita sociale, a essere il collante della comunione ecclesiale e della comunione con la Chiesa. E soprattutto voi laici, crismati nel battesimo e nella cresima, santificatori con la vostra vita del mondo nel quale spendete il vostro impegno familiare, professione e sociale, veri celebranti della liturgia della vita nella concretezza delle condizioni in cui si consumano le gioie e i dolori di ogni persona e di ogni famiglia, di ogni ambiente di lavoro e di cultura. Protesi verso tutti quanti incontrate, vi sentirete non gratificati da chissà quale riconoscimento, ma piuttosto sollecitati a corrispondere – voi per primi – sempre più fedelmente all’amore di Dio, per l’esperienza che farete di quanto il Signore opera misteriosamente nella vita delle persone e negli ambienti apparentemente più distanti dalla Chiesa.

Perché questo è alla fine il senso della unzione e della missione: che è innanzitutto e sempre il Risorto – incessantemente mandato dal Padre e forte della potenza dello Spirito – ad agire veramente dentro e attraverso ogni credente e ogni comunità che si apre alla missione dell’annuncio e della testimonianza. Allora le nostre comunità fioriranno sempre più in fraternità e armonia, in figure socialmente credibili e convincenti, perché piene di fiducia in Dio che conduce la sua opera servendosi di noi e dilatando il nostro alle dimensione del suo cuore, proteso ad abbracciare il mondo intero.



 

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