OMELIA
su Lc 6,6-11
Incontro della comunità diaconale all’inizio dell’anno pastorale
7 settembre 2020
✠ Mariano Crociata
Se prendo la parola nel contesto liturgico della celebrazione dei Vespri, non è per ribadire ciò che a voi tutti è già noto e che era comunque doveroso dichiarare, ma innanzitutto allo scopo preciso di confermare che è dalla Parola di Dio che prende avvio ogni nostra attività e che il nostro cammino di vita all’inizio di quest’anno e ogni impegno pastorale in esso contenuto hanno sempre a fondamento l’ascolto e hanno come loro peculiari un carattere e una motivazione spirituali.
Lasciamoci guidare dalla parola evangelica che oggi ci viene destinata dalla liturgia della Chiesa. Come per quelli che ben presto si rivelano nemici di Gesù, e cioè scribi e farisei, anche per noi ministri, parte integrante dell’istituzione ecclesiastica, la grande tentazione è il formalismo e il legalismo, cioè una osservanza esteriore delle norme religiose e morali che non si preoccupa della sostanza di un’autentica religiosità e della vera fede.
Gesù pone una di quelle domande che non possono avere che una risposta obbligata, tanto è evidente la parte verso cui pende la verità e il senso della giustizia. Non c’è possibilità di confusione o di compromesso tra fare il bene e fare il male, tra salvare o perdere una persona. Nessuno può immaginare che diventi lecito fare il male o rovinare una persona. Il fatto sconvolgente è che una pratica religiosa ridotta alla sola esteriorità, e che perciò ha prodotto un indurimento del cuore, può condurre a diventare insensibili a tale radicale alternativa, a pensare con noncuranza che non importa nulla se qualcuno riceve male o addirittura si perde. In realtà, quando si è arrivati a quel punto, è la sovranità stessa di Dio e il senso della sua Parola e della sua volontà ad essere andati smarriti. Più di Dio finisce per contare il proprio sistema religioso, e in fin dei conti il proprio sistema di vita, religiosamente legittimato, al punto di trovarsi a respingere l’inviato di Dio, a lottare contro Dio: «si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù».
Gesù non rinuncia – anche a rischio di venire odiato e perseguitato – a rimettere al centro Dio e, con ciò stesso, a mettere al centro anche l’uomo. Perché la volontà di Dio è il bene e la salvezza dell’uomo. È nota la famosa espressione di S. Ireneo: “la gloria di Dio è l’uomo vivente”. Del resto è proprio questo il senso del sabato: un giorno di riposo che preservi l’uomo dal diventare schiavo del lavoro e delle cose, meccanismo del regno della necessità, ingranaggio di un sistema spersonalizzante, un rischio che oggi tende a diventare una piaga sociale. Salvare l’uomo, non solo nella sua integrità fisica e nel suo benessere umano, ma anche nell’armonia con se stesso, con gli altri, con Dio. Il sabato è stato voluto per consentire alla creatura umana di ritrovare sempre di nuovo se stessa, nella sua verità alla presenza di Dio e nella relazione autentica con i propri simili.
L’ascolto della parola di Dio, momento privilegiato del sabato ebraico, è proprio finalizzato al recupero di tale finalità costitutiva dell’originario disegno creatore di Dio. E quanto più attentamente e con cuore aperto si ascolta Dio che parla, tanto più e meglio si ritrova se stessi, si ritrovano gli altri e Dio, e ancora di più si aiutano gli altri a ritrovare se stessi. Così avviene all’uomo dalla mano destra paralizzata, una immagine eloquente della impossibilità e della incapacità di agire, di fare qualcosa di buono della propria vita, costretto a tutto subire e a nulla poter intraprendere.
Un’immagine questa dell’uomo come tale quando è chiuso in se stesso e isolato da tutto. Gesù viene a restituire all’uomo l’originaria capacità di agire, di dare attuazione al compito della propria vita attraverso una iniziativa che accoglie il dono della vita da parte di Dio. Gesù viene a compiere tutto questo con l’autorità stessa di Dio, per questo è signore del sabato: è il Figlio che è venuto a restituire l’uomo alla originaria capacità conferita da Dio di collaborare al suo disegno creatore, rompendo ogni ostacolo e chiusura, restituendo alla piena libertà, spontaneità e capacità la possibilità e la responsabilità dell’uomo di essere se stesso.
Ma Gesù fa un’altra cosa: ricorda che il sabato non è solo all’origine, è anche al compimento, è la meta, la condizione di piena realizzazione di vita dell’uomo nel regno eterno di Dio. Lo scioglimento di questa paralisi è allora anche figura e anticipazione della piena libertà dell’essere che l’uomo è destinato a conseguire al termine del proprio cammino, secondo la promessa di Dio.
Anche noi dobbiamo dunque guardarci dal rinchiuderci nel formalismo e nella durezza di cuore di scribi e farisei che non vedono più nessuno, insensibili ad ogni sofferenza e disagio attorno a sé, appagati del loro perbenismo religioso arido e incattivito.
Oserei dire che voi diaconi permanente avete delle potenzialità particolari, proprio in forza del vostro ministero e della vostra condizione di vita, per conservare il senso dell’umano nella Chiesa, la capacità di coltivare, testimoniare e alimentare anche negli altri la sensibilità per la sofferenza, per il limite, per il disagio. E in tal modo anche la possibilità di umanizzare il mondo ecclesiastico – mi esprimo così – con questo contatto con l’umanità concreta e con le sue fatiche. Vedo il rischio anche per voi di cadere nel formalismo e in meccanismi che papa Francesco chiamerebbe di clericalismo. L’ascolto costante della Parola e l’aiuto fraterno fra di voi vi aiuti a conservare l’esigenza genuina del sabato di cui è signore il Figlio dell’uomo, e nessun altro.