OMELIA
Festa di S. Benedetto
Saint-Oyen (Aosta), Monastero benedettino femminile, lunedì 11 luglio 2016
+ Mariano Crociata
Da qualche tempo alcuni pensatori hanno messo in circolazione un’idea: il ritorno del modello Benedetto, cioè la riedizione della struttura sociale e religiosa creata e realizzata dal patrono d’Europa e padre dell’Occidente. Essa appare come l’ultima risorsa per far fronte al senso di disfacimento generale, soprattutto morale e culturale, di cui si ha percezione in modo particolare nei Paesi occidentali. Il raffronto si affaccia spontaneamente allo sguardo quando si pensa all’epoca in cui è vissuto S. Benedetto: l’impero romano era in uno stato di irreversibile decadenza e insuperabile la sensazione che tutto ciò che esso aveva realizzato fosse destinato a scomparire. Il fenomeno storico del monachesimo, a cui diede vita S. Benedetto, di fatto salvò dalla completa dissoluzione non l’impero romano, ma la sua civiltà e insieme la cultura antica. Ma l’anima della sua straordinaria impresa è stata innanzitutto non una visione politica né la coscienza di una missione storica, quanto piuttosto la sua fede in Cristo, il senso della Chiesa e la concezione dell’uomo e della società che scaturivano dall’una e dall’altro.
Anche oggi non sono pochi e di scarso rilievo i fenomeni che lasciano pensare a una fase di inesorabile decomposizione del tessuto morale e culturale delle nostre società, tuttavia le analogie facili da evidenziare nel confronto tra un’epoca e un’altra non devono trarre nell’inganno di pensare a una mera ripetizione del medesimo fenomeno. Non è difficile, del resto, mettere in evidenza i fermenti positivi che pure le nostre società conoscono ed esprimono. Non sembrano esserci, dunque, le condizioni per pensare a un ritiro dal mondo al fine di costruire aggregati appartati di una società parallela e così preparare o attendere un rinnovamento generale in cui tornare a inserirsi come custodi e salvatori di un mondo che fu. Simili approcci apocalittici poco rispecchiano il senso cristiano della vita e della storia, chiamati come siamo a vivere nel mondo senza appartenergli, e invece proprio ad esso mandati per portare il fermento del Vangelo e della grazia di Cristo.
Al di là del dibattito su un tema come quello accennato, certamente l’esempio di san Benedetto ha qualcosa di molto significativo da insegnarci per la fede e la vita cristiana oggi. E innanzitutto che la fede è capace di inserirsi nella storia fino a generare un nuovo stile, se non addirittura, un nuovo modello di vita umana e sociale. In un certo senso anche oggi siamo alla ricerca di un tale modello; se non altro, perché l’ambiente in cui siamo stati formati, in una società ancora abbastanza integrata e organica, ormai certamente non esiste più, pur con tutti i residui più o meno significativi di un cattolicesimo di popolo. Ma dire quale forma potrebbe assumere il nuovo modello, ammesso che possa essercene uno e che possa essere uno soltanto in una società come quella di oggi, è difficile dire. Ciò che si deve invece, senza esitazione, dire è che rimane di immutata attualità, e anzi urgenza, ciò che ha spinto S. Benedetto a intraprendere la nuova via della vita cristiana nella forma monastica. Ora, ciò che ha prodotto un tale frutto straordinario è il cuore nuovo di un credente, una interiorità profondamente plasmata dal senso del primato assoluto di Dio, dalla centralità della fede in Cristo, dall’essere totalmente preso dall’unione con lui e dall’orientare tutto a lui: nulla anteporre a Dio e al suo Cristo, è una delle sue formule più pregnanti per esprimere la fede e l’amore di Dio che lo animavano.
Le letture bibliche proclamate ci riportano esattamente a tale senso primigenio di ogni scelta e di ogni presenza cristiana, che Benedetto ha interpretato e accolto in maniera così esemplare nella Chiesa e nella società del suo tempo. Il Vangelo (Mt 19,23-29) ci mette dinanzi alle esigenze di radicalità della sequela di Gesù che pongono in alternativa il possesso della ricchezza e la scelta di lui e del suo regno. Accogliere la chiamata di Gesù e decidere di seguirlo comporta un distacco, un taglio, un abbandono della ricchezza per preferirle un’altra ricchezza, quella offerta, anzi costituita, da Gesù stesso. Non è una questione materiale di beni, di quantità o di calcoli, e nemmeno – all’opposto – di adottare una condizione esteriore di miseria, ma di libertà interiore e concreta, di adesione incondizionata. Di sicuro questa esigenza di fondo della sequela di Gesù si pone in netto contrasto con quanto la cultura e la mentalità di oggi ci propongono, perché in esse il mercato e il valore economico sembrano assorbire e compendiare ogni bene e ogni valore, ad essi viene ricondotto tutto l’umano, in ultimo diventato anch’esso una merce. Il Vangelo e san Benedetto sembrano dirci, dunque, che se vogliamo recuperare il senso non solo cristiano, ma anche semplicemente umano, dell’esistenza abbiamo bisogno di ritrovare la verità della persona e la sua libertà da ciò che la schiavizza, a cominciare dal cuore per finire alle scelte, ai comportamenti, alle relazioni.
Proprio di queste ultime parla la seconda lettura (Col 3,12-17) e ci costringe a ricordare con intima pena come esse siano spesso diventate asfittiche e disumane, ridotte a scambi di favore, di convenienze e di interessi, senza che si riesca a guardare il volto e il cuore di una persona, per capire chi essa è, di che cosa ha bisogno e che cosa è in grado di donare. Ma, ancora una volta, senza la libertà da se stessi e l’opzione fondamentale per Dio a cui consegnare interamente la propria vita, anche le relazioni umane si degradano fino a snaturarsi e a perdersi.
Tutto questo può essere percepito, però, come una insormontabile difficoltà. Ci si può chiedere: da dove cominciare, quando la condizione di smarrimento e di allontanamento da Dio e da se stessi si è consolidata fino a sembrare irreversibile? Il libro dei Proverbi (2,1-9) ha da proporre un suggerimento che può rivelarsi davvero efficace, un suggerimento che può ben essere racchiuso nella formula benedettina e monastica del “cercare Dio”. Ci siamo giustamente formati a riconoscere il primato della grazia di Dio, della sua iniziativa e della sua esclusiva capacità di toccare i cuori e cambiarli. Questo è senza ombra di dubbio vero e assolutamente prioritario. La Scrittura oggi ci fa capire, però, che l’iniziativa di Dio rende possibile e attende la risposta, la corrispondenza e la capacità di iniziativa della creatura salvata. In questa luce dobbiamo ricevere le esortazioni della pagina sapienziale: accogliere le parole di Dio, custodire i precetti, tendere l’orecchio, inclinare il cuore, invocare l’intelligenza, ricercare la prudenza e scavare come alla ricerca di un tesoro. Oggi sembra spesso mancare questa profonda tensione interiore, questo sforzo e questa pratica costante alla ricerca di Dio e della sua sapienza. Un cuore nuovo lo dà solo Dio; ma un cuore che ha percepito la bellezza della sapienza di Dio non rimane in una fatale quiete, bensì si adopera e si protende verso ciò che gli vuole essere donato.
Abbiamo bisogno di ritrovare questa intima forza che scaturisce dalla ricerca di Dio e del suo Cristo. La comunità monastica che qui vive e prega è testimone di ricerca incessante; preghiamo perché possa perseverare sempre con buoni frutti in questo cammino e perché molti che, come noi, si trovano a conoscerne e raccoglierne la testimonianza, possano intraprendere anch’essi il cammino che conduce a ritrovare Dio e se stessi, anzi se stessi in Dio.