Omelia Capitolo della Comunità monastica Deir Mar Musa (03/10/2018 – Cori)

03-10-2018

OMELIA

Mercoledì 3 ottobre 2018

Capitolo Comunità monastica di Mar Musa, Cori

+ Mariano Crociata

Mi ha fatto riflettere la vostra scelta di celebrare qui a Cori il vostro Capitolo. È un fatto che a me, a noi, dà da pensare. È come se ne venisse a noi un appello, una ulteriore responsabilità, che non so se sapremo comprendere e assumere. Certo tale scelta ha un significato anche per voi, quanto meno di fatto, se non proprio per un disegno o altro che sia.

Come minimo, dobbiamo prendere per noi la lezione, che viene dal vostro Capitolo, della necessità vitale di fermarsi per discernere, per capire dove stiamo andando, per essere confermati nel desiderio e nella scelta di riconoscere e fare la volontà di Dio. Perciò insieme, noi e voi, invochiamo lo Spirito. È Lui, infatti, che ispira il nostro desiderio e la nostra volontà di cercare Dio, il suo volere, il suo disegno di vita e di salvezza, di cui diventare destinatari e strumenti.

La pagina di Giobbe professa, con una purezza di fede oserei dire spietata, la trascendenza inarrivabile di Dio. Dio è sempre oltre le nostre pretese o i nostri tentativi di afferrarlo, di circoscriverlo, di possederlo. Limitandomi ad evocare una sensibilità religiosa molto acuta su questo punto, quale è quella musulmana, anche la nostra tradizione cristiana ci fa conoscere filoni teologici e spirituali che non si rassegnano a vedere Dio ridotto entro i limiti della comprensione e dell’esperienza umana. La loro rimane una testimonianza insostituibile della irriducibilità di Dio a ogni tentativo di farne un idolo. Perciò veramente ogni sforzo di mettere in relazione Dio con la nostra esperienza, si deve sempre misurare con il carattere sfuggente non solo della comprensione ma anche della pretesa di dominare il divino, o anche solo di usarlo e piegarlo ai nostri buoni fini.

Come lo stesso Giobbe ci attesta, noi possiamo e dobbiamo interrogare Dio, fino a sfidarlo, ma sulla base di un incondizionato abbandono e fiducia; fidarsi dell’incomprensibile Dio, di cui abbiamo conosciuto e crediamo la tenerezza di Padre e la misericordia senza misura; credere che siamo nelle sue mani nell’atto stesso in cui ne siamo sottratti; avere fiducia che non ci lascerà mai andare dalla sua mano, perfino quando sentiamo che gli stiamo sgusciando via.

Non voglio pensare, perché non ne sono capace, a quali interrogativi da porre a Dio solleva la tragedia della vostra terra in questi anni. Ma la vostra presenza e il vostro raduno sono una professione di fede, con i fatti più che con le parole, più forte dell’incomprensibilità di Dio.

Nel nostro Occidente voi incontrate, d’altra parte, non tale incomprensibilità, ma piuttosto l’insensibilità o l’indifferenza verso di Lui, come se fosse scomparso dall’orizzonte e questo si fosse ristretto e chiuso attorno a noi fino a rendere irrespirabile il mondo, questo mondo sconfinato diventato cieco nei confronti dell’infinito. All’opposto, però, si incontra anche chi alla religione si dedica con determinazione e costanza, ma per servirsi di Dio più che per servire Dio, piegando ogni buona teologia e spiritualità a favore di un idolo a cui ci si appella a piacimento e a seconda delle necessità, se non delle convenienze. Perfino la nostra pastorale fa diventare tante volte il nostro Dio un ornamento di un sistema religioso al cui centro non è Lui, ma noi.

I tre detti evangelici ci presentano, per così dire, il riflesso umano di quella inarrivabile trascendenza dentro lo stile della sequela di Gesù. Come a dire che il modo unicamente adeguato alla relazione con il Dio di cui niente può esserci di più grande, è la radicalità del cammino dietro a Gesù, in un discepolato senza sconti e gratificazioni. Mi ha colpito il mese scorso, tornando nella mia terra di origine, sentire di una ragazza, figlia di amici, già medico e con un lavoro apprezzato, che ha sentito la chiamata alla consacrazione e l’ha seguita in una comunità segnata da un estremo rigore, con le conseguenti limitazioni di incontri e di comunicazioni anche con i familiari. Il padre, vedovo e malato di Parkinson, è ormai solo, non si rassegna e soprattutto non riesce a capire un Dio che gli ha chiesto una cosa simile. E gli amici, tutti persone di assidua ed esemplare appartenenza ecclesiale, giudicano senza esitazione disumani certi rigori religiosi, lasciando tutti senza parole.

Constatiamo che oggi presso di noi è diventata semplicemente incomprensibile la radicalità evangelica, e io stesso ne parlo con grande ritegno vedendo quale sia il tenore di vita che persone di Chiesa e praticanti abituali di solito teniamo. Prima di scagliare anatemi, che colpirebbero per primi noi stessi, dobbiamo interrogarci seriamente e capire ciò che sta succedendo; dobbiamo cercare luce su che cosa il Signore ci chiede, non ultimo con questa parola che impone uno stacco netto, a ognuno magari in modo diverso, ma pur sempre uno strappo.

Dobbiamo rispondere alla domanda su che cosa e su come dobbiamo essere oggi discepoli di Gesù. Sbaglieremmo, tuttavia, se ci limitassimo a vedere solo la dimensione del distacco, della prova, della perdita, perché in realtà si può lasciar perdere qualcosa di importante come la famiglia per qualcosa di più grande, perché Gesù è il bene più grande, e come tale la sorgente della gioia e del bene senza limiti. Non è un caso che oggi anche questo si fatica a capire, perché siamo come diventati incapaci di grandi ideali, di grandi sogni e speranze, di grande e vera felicità. E lo siamo diventati perché senza Dio e senza Gesù anche le gioie e le speranze si rimpiccioliscono; e così la tragedia più grande diventa accontentarsi di cose piccine, mentre invece siamo destinati a una grandezza incommensurabile.

Il Signore ci illumini e ci orienti per essere noi per primi capaci di accogliere quella grandezza, da trasmettere poi a chiunque incontriamo.

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