OMELIA
Anniversario della dedicazione della Cattedrale di S. Marco
Latina, 18 dicembre 2017
+ Mariano Crociata
La città di Latina e la Cattedrale della diocesi, in questa chiesa di S. Marco, sono così intimamente associate per la comune e contemporanea origine, tanto da ricordarne nello stesso giorno rispettivamente la fondazione e la dedicazione, che non è possibile separarne la celebrazione, pur rimanendo distinti gli ambiti di responsabilità e di competenza, rispettivamente civile e religiosa. Sarebbe dunque espressione di scarsa consapevolezza limitarsi, nella nostra celebrazione liturgica, a generiche considerazione religiose.
A rafforzare l’inseparabilità tra le due dimensioni è la natura stessa della celebrazione anniversaria della dedicazione di una chiesa, che riconduce ultimamente l’edificio sacro, secondo quanto abbiamo ascoltato anche dalle letture bibliche, alla sua funzione e al suo simbolismo riferiti al corpo ecclesiale costituito dall’assemblea dei credenti, quale noi siamo in una rappresentanza qualificata di tutte le comunità parrocchiali accompagnate dai loro parroci. La Chiesa che noi siamo, cari confratelli e fedeli della città di Latina, ha il compito di mostrarsi quale edificio sociale ed ecclesiale unito dalla fede e dalla carità fraterna per porre un segno di unità e di concordia, di ricerca di autentica umanità e di efficace solidarietà al cospetto dell’intera comunità cittadina, qui autorevolmente rappresentata dal sindaco.
In questa prospettiva ci sentiamo chiamati, dalla nostra responsabilità di pastori e di comunità cristiane della città, a sottolineare un aspetto che senza dubbio tocca tutti, in ogni ambito istituzionale e fascia sociale. Mi riferisco al tema dei giovani e, in generale, delle nuove generazioni, sempre all’attenzione della pubblica opinione e delle istituzioni. Per la comunità ecclesiale, che accoglie e accompagna in vari modi questa porzione singolarmente significativa del popolo cristiano, c’è una ragione in più a sollecitare tale attenzione, e cioè l’indizione della prossima riunione del Sinodo mondiale dei Vescovi, che ha come titolo: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.
Non è questo il momento di soffermarsi su tale argomento; ci sentiamo invece interpellati dalla condizione dei giovani della nostra città e delle nostre comunità parrocchiali, dai loro bisogni e dalle loro attese. A un primo sguardo l’elenco dei bisogni e delle attese sembra presto fatto, stando a quanto emerge della condizione giovanile dall’esperienza ordinaria, dalle cronache e dai dibattiti che quotidianamente affollano i mezzi di comunicazione. Così, in cima vediamo collocata la questione del lavoro, con le percentuali elevate di disoccupazione che registra, e poi di seguito la qualità e l’efficacia della proposta scolastica, il livello e le prospettive degli studi universitari, le derive delle relazioni sociali, con la diffusione del bullismo e di altre forme di devianza, le potenzialità e il condizionamento delle nuove tecnologie e dell’uso dei social media, le possibilità di partecipazione attiva alla vita pubblica. Sono convinto che, in varia misura, istituzioni e società non mancano di occuparsi di questi fenomeni e delle esigenze che essi sollevano. Tuttavia l’efficacia di tanti sforzi, là dove pure ci sono, è indebolita alla radice da una difficoltà di fondo, di carattere umano e morale, prima che sociale, tecnico o politico.
E la difficoltà di fondo deriva da noi adulti, genitori, educatori, uomini e donne in qualche modo portatori di responsabilità i cui effetti ricadono direttamente o indirettamente sulle nuove generazioni. Per formare lentamente la propria identità, chi cresce ha bisogno di modelli a cui guardare, a cominciare da quelli dei genitori. Da anni ormai si ripete, innanzitutto da parte di psicologi e psicanalisti, una formula diventata quasi proverbiale: la scomparsa del padre. Le cose ora si sono fatte più complicate, ma quell’espressione coglie bene il nocciolo del problema, che consiste nell’assenza di adulti significativi, cioè umanamente veri, credibili, coerenti, capaci di suscitare il desiderio di somigliare loro. L’immagine di persona umana riuscita un bambino e un ragazzo non hanno altro modo di formarsela se non guardando ai modelli che si trovano dinanzi nel corso della loro crescita. Possiamo dare tutto ai nostri ragazzi, ma se non siamo in grado di dare una umanità matura significativa attraverso le nostre persone, nulla basterà ad appagare il loro desiderio di vita; di oggetti a volte ne hanno troppi e non sanno che farsene, tanto da cercare sensazioni ed esperienze sempre più estreme per sfuggire alla pena lancinante che li scava dentro e all’angoscia mortale di non sapere perché sono al mondo e che cosa farsene della vita.
Badate che questo aspetto tocca tutti, preti e laici, credenti e non credenti: c’è un livello che accomuna tutti ed è quello della nostra umanità; con essa dobbiamo innanzitutto dimostrare di essere veri e credibili; se noi adulti continuiamo ad essere immaturi e ripiegati su noi stessi come adolescenti, non c’è surrogato economico, tecnico e perfino religioso che possa prendere il nostro posto e colmare il vuoto che noi stiamo scavando nelle loro anime. E anche dal punto di vista religioso, non ci è consentito pensare che possiamo fare a meno di autenticità umana ripiegando sulla devozione o sulle pratiche religiose: il cristianesimo è vero dove porta a compimento la nostra umanità; la fede non copre e non sopporta l’immaturità, ma promuove e sostiene il senso di responsabilità, la serietà e la coerenza delle scelte e della corrispondenza tra parole e vita.
Un adulto è innanzitutto uno che non pensa più solo a sé e non è preoccupato solo di sé, cosa che possiamo capire in un adolescente. Adulto è chi ha imparato ed è diventato capace di farsi carico degli altri, soprattutto di chi sta crescendo; chi si preoccupa del bene degli altri, nella famiglia (ed oggi nemmeno in essa è più così scontato, con tanti genitori che posteggiano i figli non sempre solo per lavoro ma per fare i propri comodi), nella chiesa, nella vita sociale. Il fenomeno della corruzione nella pubblica amministrazione e in quella privata, per fare un esempio, non è solo un’offesa a un astratto principio morale o la trasgressione di una norma legale, è innanzitutto espressione di immaturità umana, è la prova che ci sono adulti tali solo per il numero di anni vissuti, ma rimasti bambini e adolescenti che non sono capaci di pensare che al proprio piccolo, immediato e anche illegittimo vantaggio, persone che rubano il futuro alle nuove generazioni, come ama ripetere il papa, non solo perché alterano la corretta dinamica economica, ma perché dilapidano un patrimonio morale essenziale per la società, e cioè il senso della giustizia e della equità, che consiste nel capire e praticare che il bene di tutti, che la legge tutela, è anche il bene di ciascuno. Uno degli effetti più devastanti di questo e di altri fenomeni di immaturità umana, morale e civile sta nel veleno che essi inoculano nei ragazzi e nei giovani, che vengono così portati a pensare che la vita è così, inesorabilmente corrotta, e che siamo capitati in un mondo in cui ognuno pensa solo a se stesso e cerca di approfittare dell’altro e non si cura di procurare danno alla collettività, un mondo in cui l’infantilismo dell’egoismo meschino e ottuso è la regola di tutto. Nella nostra società si può invecchiare nell’egoismo distruttivo di ogni bene altrui, con i capelli imbiancati e la pelle raggrinzita per le rughe, narcisisti impenitenti e irriducibili che non sono mai veramente cresciuti fino a imparare a prendersi le proprie responsabilità e a farsi carico del bene altrui come del proprio. Questo è il primo e più grande problema di ragazzi e giovani.
Ciononostante, c’è speranza dinanzi a noi se solo decidiamo di cambiare rotta, cominciando a fare una cosa molto semplice, educare noi stessi educando i nostri ragazzi, da adulti umili che non temono di accettare le conseguenze delle proprie scelte, di correggersi, di lasciarsi educare educando altri. Allora diventerà facile anche fare tre cose che assumono una crescente importanza nel rapporto con le nuove generazioni. La prima è l’ascolto. I ragazzi spesso hanno bisogno anche solo di essere ascoltati, di poter verbalizzare il loro confuso mondo interiore e il formarsi delle loro esperienze, per mettere ordine dentro di sé, capirsi e conoscersi. Un’esigenza, questa, tanto più forte in questo tempo in cui sono continuamente gettati nella esteriorità da un flusso disordinato e incontenibile di sollecitazioni e di stimoli. Dopo l’ascolto viene il dialogo, che non significa riversare sull’altro le proprie ansie e le proprie nevrosi bensì accogliere, fare spazio, correggere là dove è necessario e incoraggiare. Infine è importante dare spazio all’iniziativa dei ragazzi e dei giovani, con la gradualità necessaria, perché imparino a diventare protagonisti della loro vita insieme a noi. È un compito di accompagnamento che richiede attenzione, tempo, dedizione. E tanta pazienza e fatica.
Tutte le lodevoli iniziative educative e sociali che intraprendiamo hanno bisogno di questo retroterra per poter produrre qualche frutto duraturo. A noi, comunità ecclesiale, tutto questo deve essere quanto mai presente, consapevoli come siamo di avere in mano un tesoro prezioso, che sono insieme le persone a noi affidate e la grazia delle fede: mettere in comunicazione feconda le une con l’altra è il nostro compito. Non dimentichiamo che accanto alle attività da promuovere e da realizzare, c’è una relazione personale da instaurare e coltivare, a cui rendersi disponibili nella certezza che Dio opera nel cuore dei giovani e li chiama a grandi ideali per realizzare progetti che noi non immaginiamo ma che con infinita delicatezza dobbiamo cercare di propiziare con la nostra presenza e con la nostra preghiera.
Siamo fiduciosi che da questo invito a guardare con rinnovata cura ai giovani nascerà in tutti noi una nuova coscienza, e l’impegno che ne scaturirà non mancherà di essere avvertito dai ragazzi e dai giovani della nostra città.