Forum 2015
“Il ruolo nel sociale e nell’economia locale dei cattolici delle associazioni del mondo del lavoro”
Intervento di apertura
Latina, 3 dicembre 2015
+ Mariano Crociata
Una iniziativa apprezzabile
Salutando i promotori di questo incontro, le autorità intervenute e tutti i presenti, e ringraziando per l’invito a prendere la parola, desidero esprimere il mio apprezzamento per il progetto da cui nasce il nostro raduno. È importante esplicitarne subito la natura. Non si tratta infatti di un convegno di studio accademico sulla Dottrina sociale della Chiesa o in generale sulla presenza dei cattolici nella società di oggi; meno ancora di una riunione di gruppi o correnti mossi da interessi politici o elettorali o, ancora, da finalità strumentali. Ho letto nelle parole, nelle idee e nella volontà di chi ha promosso questa convocazione una sorta di sussulto di coscienza, un risveglio di identità, la risposta a una chiamata e a un appello che viene non tanto da ciò che accade attorno a noi, bensì dalla risonanza che esso suscita dentro il cuore e la mente delle persone che se ne lasciano toccare.
Questo punto è decisivo e merita per primo di essere sottolineato, perché fa la differenza rispetto ai tanti modi in cui si è soliti reagire agli avvenimenti che accadono e alle situazioni che si determinano attorno a noi. Una cosa è reagire, altra cosa è sentirsi interpellati. La reazione è di per sé istintiva, irriflessa, dettata dall’indignazione, dalla paura o dall’attrazione che il fatto esercita, suscitando emozioni immediate. Sentirsi interpellati comporta, invece, una elaborazione delle emozioni e del coinvolgimento spontaneo per fare spazio alla ponderazione e a un giudizio che coglie il significato e le implicazioni di ciò che accade. Quel che si richiede, dopo la prima reazione, è allora uno sguardo distaccato, a cui deve succedere però un impegno serio, basato su una valutazione ragionata e su una scelta responsabile, che scaturisce dalla coscienza di essere parte in gioco e di dover assumere decisioni che rispondano alle sfide poste dalle evenienze che si verificano.
Il meno che si possa dire – senza alcuna pretesa diagnosi scientifica – è che ci troviamo in una fase della vita delle nostre società a dir poco complessa e problematica, rispetto alla quale non riusciamo a venirne a capo. Soggiogati dall’intreccio perverso di individualismo e globalizzazione (che potrebbe però trasformarsi in una potenzialità di crescita della persona nel quadro di una rete ultimamente globale di relazioni), guardiamo con preoccupazione alle difficoltà economiche e ai fermenti sociali, rimanendo impressionati da fenomeni come l’incontenibile immigrazione da un lato e un terrorismo inafferrabile dall’altro. Le nostre parole spesso girano a vuoto su questioni che non riusciamo nemmeno a dominare con la mente. Ci affidiamo perciò alla routine, in apprensione per le nostre fragili sicurezze, sperando che le cose non peggiorino e che non ci accada nulla delle cose terribili di cui abbiamo quotidiana notizia.
Trovo apprezzabile, perché necessario, il progetto di collegarsi tra diverse associazioni allo scopo di cercare insieme una pertinente interpretazione dei fenomeni e tracciare un percorso condiviso di iniziative comuni.
Impegno personale e comune dei credenti
Ci sono due parole che risaltano nel motivo del nostro incontro e che qualificano questa iniziativa: cattolici e lavoro, a cui se ne potrebbe aggiungere una terza, territorio, questo territorio, che si scrolla della possibile indeterminatezza delle prime due per costringerle a misurarsi con la concretezza delle persone, dei gruppi umani e della loro storia. E se dobbiamo dire qualcosa del territorio, a partire dalla sua configurazione fisica, notiamo la complessità di mare e collina, di pianura e monti, la collocazione intermedia ma prossima a Roma e Napoli, con le potenzialità che ciò rappresenta e con le criticità che introduce. Ma l’accento principale è destinato a cadere sulla composizione sociale, e più precisamente sulla varietà dei gruppi umani che si dispongono nel panorama provinciale senza giungere a un articolato amalgama socio-culturale delle sue componenti: dalle popolazioni storiche insediate nei paesi di collina e nella zona meridionale della provincia, alle ondate di immigrazione, dal centro-nord la prima, dal sud la seconda e ora da ogni parte del mondo. Questa configurazione solleva un problema circa la coerenza di una unità incompiuta e di una identità non chiaramente definita; ma rivela d’altra parte una vitalità tipica delle forze nuove che cercano sbocchi per essere investite e produrre sviluppo. Ne segue che accanto a poli di eccellenza, dal farmaceutico all’agricoltura, si riscontrano sacche di ritardi se non di arretratezza. La dimensione culturale è forse quella che attende le cure maggiori per assicurare al territorio una adeguata capacità di crescita e di sviluppo.
Ad accomunare le tre parole richiamate è la Dottrina sociale della Chiesa, cioè l’insegnamento accumulato per iniziativa del magistero da oltre un secolo a questa parte, allo scopo di rispondere alla moderna e contemporanea questione sociale. Si tratta di una dottrina in continua evoluzione, perché non risponde ad astratte elucubrazioni ma riflette le situazioni in cui le comunità umane vivono, sulle quali non cessa di proiettare la luce del Vangelo con la sua peculiare visione della persona umana e della società.
Non sarebbe difficile richiamare e sviluppare i contenuti in cui si condensa la Dottrina sociale della Chiesa, ma non è questo il momento di farlo. Ciò che invece è più appropriato in questa circostanza riguarda il metodo che essa insegna a seguire per pervenire a un giudizio pertinente sul momento che la società attraversa e per trovare le risposte adeguate e tradurle in scelte operative corrispondenti.
Prima però di spendere qualche parola su questo aspetto, va richiamata una esigenza che definirei in senso lato deontologica, poiché va riferita ai soggetti che si sono impegnati nella iniziativa di mettere in piedi un forum, un circuito di associazioni ispirate alla fede cristiana cattolica. Sì, perché l’esigenza da avvertire in linea addirittura previa è che non è consentito spendere arbitrariamente l’aggettivo cattolico. Non perché il suo uso sia una prerogativa clericale, ma perché chiunque lo adotti e se ne qualifichi si assume la responsabilità pubblica di essere identificato come tale e in qualche modo di risponderne pena l’indegnità personale per chi tradisce l’identità di cattolico e il conseguente screditamento del titolo di cui si fregia. Siamo in una stagione etica e culturale in cui sono sempre meno quelli che conservano senso della propria dignità e coerenza. D’altra parte, il solo essere inseriti in una singola associazione ecclesialmente ispirata mette dinanzi a tale esigenza; ciò vale ancora di più quando diverse associazioni decidono di darsi un progetto comune.
Non da oggi si sprecano da parte di tanti i richiami a una smarrita moralità pubblica, con il sottinteso spesso non pensato che basti indignarsi, evocare o invocare necessarie evidenze etiche per vederle magicamente materializzarsi nelle strutture della vita associata. La verità è che nessun progetto di bene passa per la via della sola regolamentazione, della legge, dell’organizzazione o della sanzione dei comportamenti sociali. La via maestra di ogni reale cambiamento sociale è sempre la coscienza personale, nella misura in cui essa dispone di risorse spirituali e culturali adeguate a una tale impresa, che appare quasi sovrumana per la fatica che comporta. Per questo il credente muove dalla convinzione che senza la grazia di Dio nessuna impresa morale e spirituale può essere debitamente abbracciata e portata a realizzazione. Ascolto della Parola, sacramenti, prassi penitenziale, disciplina comunitaria della Chiesa non sono di contorno rispetto a una vita che dovrebbe possedere e imporre la sostanza delle cose fatta di concretezza. Essi costituiscono invece l’anima e il nerbo di una esistenza personale e sociale riuscita e in corso di costante perfezionamento.
Per noi credenti solo tale sostanza religiosa ed ecclesiale potrà ridare tenore morale e culturale alla vita associata. Non perché altri non possano o non abbiano il loro contributo da apportare, ma perché da parte nostra solo così fondati riusciremo a farci costruttori di una società rinnovata. E non c’è dubbio che siamo di fronte all’esigenza di un radicale rinnovamento. Lo siamo a tal punto che molti hanno finito di crederci e si sono scoraggiati, cadendo nel cinismo e nella rinuncia.
La Dottrina sociale come metodo
Il metodo che la Dottrina sociale della Chiesa indica si propone come via di reale e fecondo rinnovamento. Esso consiste nell’approfondimento e nello sviluppo dei suoi principi ispiratori, da un lato, e della realtà sociale del territorio, dall’altro, attraverso il loro costante confronto, così da far capire ciò che sta avvenendo alla luce di quei principi dottrinali incarnati nella situazione concreta del vissuto comune e tale da suscitare progetti capaci di trasformare e promuovere una convivenza più pacifica e solidale.
Questa astratta definizione fa presto ad essere compresa quando diamo un nome preciso anche solo ad alcuni dei problemi sociali del nostro territorio che ci assillano. Perfino a un osservatore superficiale si presentano nella loro drammaticità al primo sguardo problemi come la disoccupazione giovanile, le difficoltà economiche di molte aziende minacciate di chiusura, la perdita dell’occupazione da parte di lavoratori che non hanno più possibilità di trovarne un’altra, la lentezza se non il ricatto burocratico di tanta parte della pubblica amministrazione, la mancanza di competenza e di professionalità in tanti operatori pubblici e privati, il peso della pressione fiscale, il valore irrisorio dei prodotti agricoli a fronte della lievitazione dei prezzi della loro commercializzazione, il costo del denaro e il rapporto dell’impresa e del lavoro con le istituzioni del credito, il problema dell’inquinamento del territorio, la microcriminalità e il condizionamento della malavita organizzata, l’inquinamento economico e sociale prodotto dalla corruzione pubblica e privata; e l’elenco potrebbe continuare. Credo che temi come questi sono offerti all’attenzione di un forum quale il vostro per essere trattati non in termini teorici e generalissimi, ma con preciso riferimento alle caratteristiche che ciascuno di essi assume nel nostro territorio.
A partire da una visione
È importante aggiungere subito che una tale opera di vero e proprio discernimento spirituale, etico e sociale suppone e produce una visione. Ci vuole una visione per comprendere e operare efficacemente, anche in ambito sociale. Visione significa capacità di abbracciare con lo sguardo l’insieme degli aspetti che si intrecciano nella vita associata in modo da rappresentarsi la meta di progresso collettivo che si vuole raggiungere e come ci si può arrivare approntando le opportune decisioni, strumenti e procedure. Il contenuto di una tale visione non si riduce al raggiungimento di un risultato immediato, come quello che si prefiggono rivendicazioni e proteste, trattative e compromessi, poiché la costruzione sociale che si intende perseguire ingloba risultati specifici (come il rinnovo di un contratto, per fare un esempio che peraltro esula per lo più da competenze territoriali circoscritte), ma tende ad una crescita del corpo sociale nel suo insieme e al suo bene complessivo più pieno.
Una visione così intesa deve essere posseduta fin dall’inizio anche solo in maniera germinale. Voi avete deciso di mettervi insieme come associazioni perché avete intravisto degli obiettivi, delle realizzazioni di crescita per voi e per la nostra comunità civile tutta. L’opera che avete dinanzi consiste nell’elaborarla ulteriormente, svilupparla e concretizzarla. Nell’orizzonte di una tale visione condivisa, vi propongo conclusivamente alcune considerazioni.
Alcuni nodi strategici
La prima riguarda il rapporto tra economia e persona. Sembra un tema astratto e generalissimo, e per tanti versi lo è. Ma se tutti i documenti magisteriali recenti confermano ciò che autorevoli studiosi ormai vanno dicendo da tempo, e cioè che perdere di vista la centralità e il primato della persona risulta alla fine addirittura anti-economico, allora vuol dire che anche nel concreto di un vissuto locale come il nostro dobbiamo comprendere che l’economico e, soprattutto, il finanziario rischiano di fagocitare la persona e piegarla alle esigenze del capitale piuttosto che viceversa. È vero che ci sono meccanismi più grandi di noi, che ci superano e ci utilizzano – dalle multinazionali alle grandi banche, e altre realtà globali ancora –, e tuttavia bisogna che cerchiamo di vedere e allargare gli spazi, sia pure ridotti, per non rendere o mantenere le persone schiave di meccanismi economici, ma piuttosto per farne soggetti di processi virtuosi anche sul piano dei vantaggi personali e della economia sociale.
Una seconda considerazione riguarda l’approccio principale da adottare in un settore così arido e sottoposto al calcolo impersonale e spietato come quello delle leggi dell’economia e del mercato. Anche in questo ambito il primato della persona deve diventare una scelta regolatrice di ogni approccio e orientamento. Esso consente uno sguardo di speranza che scaturisce dalla fiducia nelle risorse di inventiva, di passione e di amore, di apertura al futuro che abita giovani e meno giovani, in un crogiuolo di culture e di mentalità da cui da decenni nasce e si plasma una capacità di lavoro e di dedizione straordinaria. Uno dei compiti, oltre che la modalità di fondo del vostro sentire, dovrebbe consistere nell’individuare e valorizzare i fermenti positivi ovunque presenti. Bisogna cercare tutte le risorse di creatività, di generatività, di dedizione che il nostro territorio possiede. Questo è il vero punto di partenza di un rinnovamento sociale che voglia riscattare da molti problemi che ci affliggono.
Una terza considerazione concerne il compito educativo e di incoraggiamento attraverso segni concreti di cui i giovani hanno bisogno, soprattutto quelli che stanno perdendo la voglia e la forza di lottare. La scuola si trova di fronte a una grande sfida in tale direzione; per questo anch’essa dovrà essere messa a tema in una riflessione da promuovere nel percorso di discernimento con gli strumenti della Dottrina sociale della Chiesa. Tuttavia l’educazione non è solo dovere della scuola, ma prima ancora delle famiglie e della società intera attraverso le diverse agenzie formali e informali di cui è dotata. Anche le vostre associazioni hanno da assolvere a una responsabilità educativa: nei confronti dei più giovani che diventano soci come voi, ma soprattutto dei giovani che sono costretti a guardare a chi lavora e non riescono a trovare una via d’uscita alla loro ricerca e alla loro attesa. Educare significa proporre un modello di persona, di cittadino, di credente attraverso lo stile e la prassi, prima che attraverso le parole, che contrassegnano chi ne ha e ne avverte la responsabilità. Uno dei fattori più diseducativi sta nel fatto che la nostra generazione si prende cura di sé e difende i propri diritti acquisiti noncurante che i più giovani non abbiano presente e vedano sempre più svuotato il loro futuro. A tale fattore se ne aggiunge un altro, ad esso strettamente legato, e cioè l’idea che guadagnare e star bene servono a godersi la vita senza farsi carico di alcuna responsabilità, dimentichi della situazione e dei problemi degli altri. Se i giovani vivono così è perché noi adulti abbiamo trasmesso fondamentalmente questo ideale di vita. E se è vero che ci sono gli effetti della crisi economica ad agire producendo l’assenza di lavoro e la conseguente condizione in cui tanti giovani vivono, ebbene anche la crisi economica ha una radice morale nell’atteggiamento egoistico con cui la nostra generazione si è consegnata all’idolatria del denaro e dell’arricchimento illimitato a costo anche dell’esistenza degli altri. Tutto un capitolo lungo e articolato si apre su questi temi, sui quali Benedetto XVI con la sua enciclica Caritas in veritate e papa Francesco con la sua Laudato si’ hanno portato acutamente l’attenzione. Richiamiamo soltanto che i diritti sono inseparabili dai doveri e che l’interesse privato non viene di fatto nemmeno conseguito quando non ci si fa carico degli effetti sociali del proprio agire anche privato e delle responsabilità pubbliche che sempre comporta lo svolgimento di qualsiasi attività e l’assunzione consapevole di qualsiasi condizione di vita. Nessuno può solo pretendere e ricevere; tutti abbiamo da dare alla collettività. Inizia qui – prima ancora del senso cristiano della vita – un elementare senso civico che spesso va dichiarato carente se non assente.
Un’ultima considerazione si rende necessaria, nel nostro contesto non meno che in larga parte di un paese come il nostro. Mi riferisco ai fenomeni della corruzione, del malaffare, della malavita organizzata. La nostra condanna a tale riguardo deve essere ferma, quanto a chiarezza anche pubblica, e concreta, quanto a scelte e atteggiamenti nelle relazioni di lavoro e di società. Mentre rinnoviamo il sostegno e l’incoraggiamento verso le forze dell’ordine e le istituzioni che combattono quei fenomeni riportando anche significativi successi, dobbiamo inculcare in noi stessi e nelle nuove generazioni la convinzione che il lavoro di repressione e di contenimento sarà alla lunga efficace se sarà preceduto, accompagnato e seguito da una corrispondente coscienza personale e condivisa, per esempio in associazioni come le vostre, secondo cui c’è una responsabilità di noi tutti verso le esigenze di una società libera da tali drammatiche pastoie, protesa non solo verso pratiche di giustizia e di legalità, ma soprattutto e prima ancora verso comportamenti improntati al rispetto della dignità delle persone, alla solidarietà e alla cooperazione.
Per un nuovo umanesimo cristiano
Si è svolto nel mese appena trascorso a Firenze il Convegno ecclesiale nazionale, che ha visto tutte le espressioni della Chiesa in Italia impegnarsi sulla prospettiva di un umanesimo cristiano rinnovato dall’incontro con Cristo e dal risveglio della fede in lui. Il compito dei cattolici oggi di contribuire a costruire una società più giusta, a lottare per il riscatto da crisi e problemi che da troppo tempo deprimono la collettività, per riscoprire il senso del bene comune come obiettivo su cui far convergere gli sforzi di tutti si racchiude nella coscienza e nell’impegno per un nuovo umanesimo, per una coscienza nuova della dignità umana e per una dedizione che la persegua con determinazione e creatività. Il modo migliore per condensare tutto quanto ho cercato di dire mi sembra quello di proporre alcuni passaggi del discorso che papa Francesco ha tenuto all’inizio del Convegno consegnando a tutti i convenuti alcune indicazioni di fondo. Egli ha detto:
Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare […] è cercare il bene comune per tutti. […] pensare alle soluzioni migliori per tutti. […] non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile. […]
La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media… La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. […]
Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà. […]
Ma la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini. […] La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose.
Faccio appello soprattutto «a voi, giovani», […] superate l’apatia. […] non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le trasformazioni.
[…] Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo.
Forti di queste autorevoli e incoraggianti sollecitazioni, apriamoci alle esigenze di un nuovo umanesimo, cristiano e civile, fatto di dialogo e di volontà di costruzione della comune città dell’uomo, con la fiducia che già numerosi sono i fermenti positivi che hanno bisogno soltanto di essere visti, raccolti e abbracciati per crescere e diventare realtà sempre più piena di bene e di vita per tutti.