INCONTRO CON GLI INSEGNANTI DI RELIGIONE
Latina, 25 ottobre 2017
+ Mariano Crociata
Formazione in servizio e cura del sé professionale
L’introduzione al nostro incontro è giusto che prenda le mosse dal richiamo della Lettera agli insegnanti di religione cattolica pubblicata lo scorso 1° settembre, che ha voluto sottolineare l’atteggiamento con cui i Vescovi e la Chiesa in Italia guardano a voi insegnanti. Il valore della Lettera va colto innanzitutto nell’intenzione che anima la relazione che i Vescovi vogliono coltivare e tenere viva nei confronti di chi ha dedicato vita e lavoro a questo peculiare insegnamento. È una intenzione positiva e anzi piena di gratitudine, nel cui clima vengono ripresi gli aspetti costitutivi dell’insegnamento e della figura dell’insegnante, consapevoli come essi sono della solidità istituzionale e scolastica che l’insegnamento ha dimostrato e raggiunto negli scorsi decenni, ma anche della evoluzione che caratterizza sia la società che il mondo della scuola. Penso che essa possa essere tenuta come punto di riferimento nella nostra riflessione e nel confronto, non solo di oggi, con cui vogliamo accompagnare il vostro servizio professionale e scolastico.
L’esperienza mi conferma circa una fatica che forse anche voi avete conosciuto nel corso del vostro percorso formativo e professionale. Quell’equilibrio che la Lettera dei Vescovi e i documenti della CEI in genere mantengono, tra professionalità e legame con la comunità ecclesiale in quanto entrambi necessari e tra loro inseparabili, nell’esperienza concreta della vita nella Chiesa e nella scuola riscontriamo che facilmente si perde, se non addirittura raramente si raggiunge. È facile, infatti, avvertire il sospetto, tra colleghi e studenti, di essere portatori privilegiati di interessi ideologici esterni alla scuola o, all’opposto, da parte di preti e vescovi, di essere troppo appiattiti sulla scuola e di non curare il rapporto con il mondo della fede e con la comunità ecclesiale. In realtà è fin troppo vero che l’insistenza, di volta in volta, sulla competenza professionale o sulla radice ecclesiale della vocazione educativa e scolastica, e quindi sul legame con la comunità dei credenti, porta a un’enfasi unilaterale, e quasi esclusiva, a seconda che si tratti dell’una o dell’altra dimensione, senza dimenticare che bisogna sempre scontare una sorta di difesa d’ufficio o di salvaguardia di legittimi interessi di scuola o di Chiesa che si esprimono da parte dei rispettivi rappresentanti istituzionali. L’effetto di questi atteggiamenti su di voi insegnanti di religione rischia di essere lacerante, con l’effetto di trovarvi tirati solo da una parte o solo dall’altra, senza mai raggiungere quell’unità a cui legittimamente aspira ciascuno di noi anche nell’esercizio della propria attività o nello svolgimento della propria missione.
Non a caso ho usato le parole attività e missione. Sono parole che rivelano due concezioni del lavoro e della vita; esse ci attraversano e forse coabitano dentro di noi. Viene da chiedersi se esista un’attività umana totalmente priva della dimensione vocazionale e missionaria, e se esista una missione o una professione a dominante carattere missionario, che non conosca l’aspetto della fatica arida e ripetitiva propria di un lavoro apparentemente sterile. Da questo punto di vista, mi chiedo sempre se i vostri colleghi che insegnano altre discipline o svolgono altre attività didattiche sono in una condizione così radicalmente diversa dalla vostra. Come ho avuto modo di accennare qualche altra volta, sono convinto di no, anche se essi non ne hanno spesso la minima coscienza. Ciò che mi preme in questo momento è esaminare la questione dal punto di vista della formazione permanente o, come oggi più propriamente si dice, della formazione in servizio.
La formazione in servizio contiene in sé un’idea che è molto feconda prima che per la adeguata professionalità, per la stessa personalità del docente. Essa può essere riferita, infatti, solo per un verso alle attività di aggiornamento inerente a quelli che vengono considerati i tre ambiti fondamentali della competenza della professione docente, e cioè l’ambito didattico-pedagogico, l’ambito delle scienze umane e quello inerente la capacità comunicativa. Naturalmente, accanto all’aspetto della metodologia e della tecnica della professione docente, si colloca l’aggiornamento circa i contenuti disciplinari e la loro articolazione interna, adombrato nell’ambito delle scienze umane ma non solo, tenendo presenti in particolare gli sviluppi che la ricerca teologica e religiosa conosce, nonché la correlazione e l’intreccio con altre discipline.
Per altro verso, la formula della formazione in servizio rimanda all’esercizio dell’attività docente nell’atto di compiersi. Suggerisce, cioè, l’idea che l’esercizio di tale attività, con il solo fatto di essere svolta e nell’atto stesso di compierla produce un effetto formativo. A me sembra un’idea illuminante se non la si dissocia dal primo versante di cui dicevamo prima. Essa consiste nel fatto che il docente nell’atto di insegnare, con tutti i generi di attività che tale atto abbraccia, dà forma a se stesso come docente, come soggetto di una relazione educativa e come persona. L’attività docente dà via via forma alla persona, come del resto ogni attività svolta dall’uomo lo plasma lentamente; ma inoltre lo fa crescere, perché lo fa entrare in un possesso sempre più pieno delle competenze sia metodologiche che contenutistiche, e non meno anche delle competenze relazionali e pedagogiche. Un insegnante che svolge con dedizione il suo lavoro, con la consapevolezza adeguata e corrispondente di sé, oltre che dell’oggettività del servizio docente che presta, forma sempre più compiutamente se stesso e cresce verso una figura umana, personale e professionale sempre più alta e compiuta.
In questo senso trovo stimolante la formula, che ho raccolto frequentando questi temi, della cura del sé professionale, là dove il ‘sé professionale’ non è una astrazione dalla persona concreta e nemmeno una sezione tra le altre molteplici attività umane, ma il momento di sintesi personale a cui vuole e deve condurre una appropriata conduzione della professione docente. Non può esistere una estraniante professionalità che astragga dalla persona e che non diventi sintesi nella e della persona, la quale nell’unità umana e spirituale che le è propria, si vive e cresce come soggetto educativo, in modo particolare nel mondo della scuola, senza finire di sperimentare le implicazioni che la coscienza di tale ruolo esercita sulla totalità della sua vita interamente chiamata a relazionarsi, senza lasciarsi assorbire e annullare, con quella dimensione professionale.
Questo ci conduce alla questione decisiva del senso, e perciò delle motivazioni e degli scopi, della propria attività professionale. L’espressione “cura del sé professionale” unisce, infatti, due elementi di valore asimmetrico ma strettamente interconnessi. A rigor di termini, il sé rimanda a un orizzonte più vasto dell’attività professionale; il sé a cui si applica l’esercizio della professione, certo, viene plasmato e attuato da tale esercizio trovando in esso una modalità fondamentale di espressione e di autorealizzazione, ma non si riduce ad esso. Il soggetto personale non esiste in astratto, fuori da una condizione esistenziale concreta, ma nemmeno si riduce né dipende da un tipo esclusivo di attività concreta di fatto svolta. Questo vuol dire che la cura di sé, anche in vista della professione, non si restringe agli ambiti specifici di una competenza professionale, ma ha bisogno di trovare modalità sempre più adeguate agli orizzonti illimitati che sono propri del soggetto in quanto persona.
Se dunque la persona si forma anche nell’esercizio concreto della professione, è proprio perché investe in tale esercizio non soltanto la competenza ma anche l’intenzionalità, le motivazioni, l’orizzonte di senso entro cui essa vive, perché tale orizzonte qualifica e specifica l’identità della persona. Si può non essere consapevoli del proprio orizzonte di senso, ma è certo che solo la sua presenza consente a una persona di condurre la propria esistenza in modo coerente e unitario, umanamente adeguato e degno. Qualsiasi attività umana presuppone la coscienza delle motivazioni, del perché, del fine per cui si vive e per cui si va avanti, verso il futuro. Dentro ci si può mettere di tutto, ma esso sussiste in ogni caso nel mondo spirituale della persona: saranno la famiglia e gli affetti familiari, gli interessi economici, l’evasione e il divertimento, un ideale di giustizia sociale, una volontà di affermazione personale o comunque di riuscita, l’ansia di conoscenza e di ricerca, un’alta idealità morale, una fede o un’esperienza religiosa, o anche una mescolanza di questi e altri motivi. Per questa ragione anche i docenti delle discipline più tecniche, scientificamente (apparentemente) neutrali rispetto a ogni dimensione ideale, non per questo si confrontano con il tema della propria formazione in modo neutrale, ma sempre in collegamento con un orizzonte di senso che entra in gioco nel complessivo processo di formazione con cui sono tenuti a misurarsi.
La cura della professionalità tocca dunque la persona e rimanda a una dimensione della formazione che interessa la persona come tale, e quindi la visione della vita, le motivazioni e gli ideali che stanno a fondamento del suo percorso esistenziale. Tale cura interessa dall’interno il senso dello stesso lavoro svolto, soprattutto quando si tratta di lavoro, per così dire, sulle persone e sulle relazioni, come è il caso dell’attività scolastica e di quella educativa in genere. Comunicando sapere e istruzione ci si mette in gioco personalmente, si prospetta, senza dirlo, una visione e un’esperienza della vita, si fornisce un esempio di che cosa significa stare al mondo e del modo come si vive da persone umane dentro un ambiente, una tradizione, una storia; ma si rivela anche un’idea del futuro, e del futuro ultimo, dell’essere prima della nascita e dopo la morte.
Per queste ragioni la cura del sé professionale non è separabile dalla cura del sé come tale e delle dimensioni originarie della coscienza e dell’orientamento abbracciato per la propria vita. Sussiste una circolarità inesausta tra l’esercizio della professione e la cura della propria formazione, mediata da quella che abbiamo chiamato cura del sé, in cui sono implicati l’aspetto formale della formazione stessa e la consapevolezza e l’intenzionalità con cui si svolge l’esercizio della professione, mai priva di una efficacia autoformativa. E la cura del sé rimanda anche alla coltivazione dell’ispirazione e delle motivazioni che stanno all’origine e a fondamento della scelta professionale.
Il legame con la comunità ecclesiale è costitutivo a tale scopo, perché solo in essa trova adeguato alimento la fede su cui si innesta la professione docente dell’insegnante di religione. La sua peculiarità epistemologica, oserei dire, è determinata dal fatto che è un sapere, quello che studiate e comunicate, elaborato in intima connessione con la fede, anzi è il sapere (critico) della fede, quella che nasce e si sviluppa sui contenuti della fede o connessi alla fede, in ogni caso illuminati da essa. Non stiamo qui negando che il sapere della fede possa essere elaborato e studiato anche da chi non abbia la fede; stiamo solo dicendo che, in analogia alla teologia, il sapere trasmesso nell’insegnamento della religione è il sapere che nella comunità ecclesiale viene sviluppato con una intelligenza illuminata dalla fede. Proprio questo carattere credente del sapere trasmesso nella scuola, anche se in forma e con finalità culturale, non di per sé orientato a coltivare la fede come tale, stabilisce un rapporto non funzionale ma costitutivo con la comunità ecclesiale e con la sua esperienza formativa, che non è soltanto circoscritta alla modalità verbale di riflessione e di comunicazione, ma si alimenta alle sorgenti della preghiera e della liturgia, come pure della comunione fraterna e della carità.
Non ho adottato a caso l’espressione rapporto non funzionale, poiché non è solo a servizio della professione docente che il rapporto con la comunità ecclesiale deve essere coltivato, ma piuttosto esso si inserisce in un rapporto personale con la vita della Chiesa, che serve la fede personale di ciascuno, la sua identità cristiana come base spirituale, ideale e valoriale su cui si innesta anche la dimensione professionale. Un docente di religione non può essere se stesso, prima ancora che docente, senza questo rapporto costitutivo con la base della sua esistenza personale credente in cui affonda le radici la sua identità e la sua personalità.
Detto questo, sono disposto ad aggiungere – e forse dovrei dire che sono tenuto a farlo – che lo svolgimento appropriato e diligente dell’attività di docente di religione costituisce, per un insegnante, il modo proprio e principale di attuare la sua vocazione cristiana e la sua missione ecclesiale. La qualità di membro vivo della Chiesa si realizza e si sviluppa, per lui, nell’esercizio della professione docente. In essa egli attua la sua vocazione cristiana e presta la sua collaborazione alla missione della Chiesa mediante il suo servizio (scolastico, educativo e culturale) alle nuove generazioni. È proprio a questo scopo che egli deve coltivare il proprio rapporto con la Chiesa, sia quello istituzionale che quello personale. Fatte salve le condizioni e gli adempimenti formali legati all’idoneità, solo in un legame vivo con la fede e la vita della Chiesa il docente trova conferma e attinge risorse spirituali e culturali per lo svolgimento del suo compito educativo scolastico. Non può esistere un insegnante che pretenda, per così dire, di emanciparsi dalla dipendenza ecclesiale per essere e sentirsi autenticamente e autonomamente insegnante, poiché verrebbe meno la linfa che circola dalle radici alla pianta del servizio professionale stesso. La conseguenza della perdita di rapporto vitale con la comunità ecclesiale sarebbe una vera e propria ‘de-formazione’ professionale (in qualche modo, la perdita della forma propria) e, al limite, una sorta di spersonalizzazione, per la dissociazione che interverrebbe tra il contenuto e il senso di ciò che egli comunica e l’orizzonte che li legittima e li alimenta. Un riscontro indiretto di tale costitutiva dipendenza che non limita ma abilita sempre meglio ad un insegnamento autentico e autonomo, è fornito dall’importanza crescente che l’istituzione scolastica statale attribuisce alla formazione in servizio dei propri docenti.
Dunque un legame da coltivare, quello con la Chiesa, sia in riferimento alla dimensione personale di cura della propria fede, sia in riferimento all’aggiornamento su quegli aspetti del sapere della fede, oltre che a quelli della competenza pedagogico-didattica e comunicativa, che rendano l’insegnamento esso stesso luogo della cura del sé professionale e in ultimo anche personale, per la crescita umana che la dedizione al lavoro porta sempre con sé in quanto forma privilegiata del lavoro su di sé che in maniera particolare la professione realizza. Di qui l’invito a non estraniarsi, ma a valorizzare tutte le opportunità che, nel nostro caso, sono in campo, a cominciare da quelle diocesane: innanzitutto quelle promosse espressamente per voi insegnanti o comunque programmate con una attenzione speciale a voi; ma poi anche quelle più propriamente ecclesiali, pastorali e culturali. In tal modo la formazione troverà nuove opportunità e l’esperienza della comunità ecclesiale diventerà fonte di rigenerazione continua della propria persona e della professione docente nella scuola.
Rimane da richiamare l’esigenza o la proposta di collaborazione attiva all’azione pastorale della Chiesa nei vari ambiti della sua vita comunitaria. Su questo credo di poter dire che la disponibilità e la possibilità concreta di offrire la propria collaborazione in alcuni settori pastorali non è solo un aiuto o un supporto per la comunità, ma anche una opportunità per chi svolge quel servizio, poiché si completa quella condivisione dell’esperienza di fede a cui attinge anche la qualità e il concreto svolgimento del servizio di insegnamento scolastico. In questo senso risulta significativo quanto scrive la Lettera dei Vescovi circa il ruolo di intermediazione circolare che l’insegnante di religione per sua natura è destinato a ricoprire in forza della piena appartenenza ad ambedue i mondi, la scuola e la comunità ecclesiale.
Senza mai confondere missione evangelizzatrice e insegnamento scolastico, voi Insegnanti di religione assolvete un servizio prezioso di testimonianza e di animazione cristiana nella scuola, innanzitutto attraverso l’appropriato svolgimento del vostro insegnamento. Ciò si realizza in modo particolare nella forma del dialogo culturale con gli alunni e con i colleghi, sia esso inteso in senso interdisciplinare sia riferito alla pluralità di religioni e di culture ormai presente pressoché in ogni istituto scolastico. D’altra parte, voi Insegnanti costituite un tramite credibile di collegamento fra la comunità ecclesiale e l’istituzione scolastica e, inoltre, fornite un contributo peculiare alla comunità ecclesiale – ciascuno di voi come singolo o in forma associata – a partire dalla competenza ed esperienza, che potete mettere a frutto in diversi ambiti della vita della Chiesa, negli organismi parrocchiali e diocesani di partecipazione e nei diversi spazi di formazione, di celebrazione e di volontariato (n. 3).
Il mio auspicio è che nella nostra diocesi si coltivino e crescano le relazioni già feconde e significative tra comunità ecclesiale e voi docenti di religione, in un clima di fiducia e di stima reciproci, e in una disponibilità alla collaborazione. Dovremmo mettere da parte, là dove ci fossero, sospetti e diffidenze, strumentalizzazioni e opportunismi, avendo a cuore il destino della fede e della cultura che essa è capace di generare, e insieme ad esso il bene delle persone, di voi insegnanti, dei vostri studenti (i quali si aspettano di incontrare persone significative, cariche di passione educativa e culturale) e di quanti nella Chiesa riconoscono e apprezzano il vostro lavoro (e sono la maggioranza) e vorrebbero vedere anche nella vita ordinaria della comunità la fecondità della vostra competenza e della vostra presenza.