Centenario dello scoutismo in Italia (18/05/2016, Lumsa-Roma)

21-05-2016

Centenario dello scoutismo in Italia

Tavola rotonda

Roma, Lumsa, 18 maggio 2016

¿ Mariano Crociata

Innanzitutto desidero ringraziare per l’invito e l’opportunità di prendere la parola in questo contesto celebrativo dei cento anni dello scoutismo cattolico in Italia.

La prima, e probabilmente più importante, cosa da dire in questo contesto credo sia la consapevolezza che i vescovi italiani, e non solo essi, hanno del contributo rilevante che lo scoutismo ha dato alla formazione di generazioni di credenti. Ciò che la storia ormai secolare di questa esperienza mette in luce non permette, però, di guardare solo al passato, poiché il suo presente segnala un significato e un ruolo che non temono confronti nel panorama educativo della comunità ecclesiale e del mondo cattolico in generale. È perfino ovvio che la mia attenzione si indirizzi verso le prospettive che tale panorama vede schiudersi dinanzi a sé.

Lo sfondo è facilmente delineato dalla sensazione di una rottura tra le generazioni che sembra essersi irreversibilmente prodotta in questi ultimi decenni. È una sensazione in qualche modo rafforzata dalla scelta del magistero di mettere a tema, in vario modo, proprio la questione educativa. Al di là delle facili approssimazioni e generalizzazioni, tale sensazione riflette l’esperienza di un crescente difficile rapporto di adolescenti e giovani con la Chiesa, cosa che non manca di trovare riscontri in altri mondi di vita come la scuola.

Ciò che mi sembra in estrema semplicità di poter dire è che lo scoutismo ha l’esperienza e gli strumenti per contribuire a superare l’impasse che il compito educativo si trova a fronteggiare. È un superamento che passa attraverso il recupero di tre tipi di rapporto che, seppure in maniera non esclusiva, svolgono un ruolo nevralgico nel processo educativo.

Il primo rapporto da recuperare è quello che passa dentro gli stessi ragazzi, adolescenti e giovani, che sperimentano molteplici lacerazioni: innanzitutto quelle indotte dalla fase evolutiva tra corporeità e le altre dimensioni della persona (istinto, emozione, affetto, intelligenza e altro); poi, oggi in modo particolare, tra mondo virtuale e mondo sensibile, fisico; ma infine anche – e forse più semplicemente – tra ambienti, relazioni e mondi di esperienza eterogenei che rischiano di procedere paralleli rispetto a una personalità in formazione che ha bisogno di fare unità ma non riesce a integrare i vari aspetti trovandosi esposta alla dissociazione e all’alienazione. A partire dal contatto con la natura, dalla graduale assunzione di responsabilità, dall’apprendimento del senso del cammino e della progressione, della concretezza della fatica e della diversità dei momenti che compongono il ritmo dello stare insieme, in un contesto di gruppo che favorisce il confronto e insieme la presa di coscienza della propria corporeità, affettività e emotività, razionalità e spiritualità, trova favore quel processo di presa in carico di se stessi che sola può dare prospettiva a un’opera educativa.

Il secondo tipo di rapporto che un educando ha bisogno di costruire è quello con l’alterità, innanzitutto interpersonale. Il gruppo è in grado di favorire tale processo non solo per la condivisione dell’esperienza tra coetanei, su un piano orizzontale, ma perché costringe a misurarsi con l’asimmetria relazionale rappresentata dall’educatore capo, giovane o adulto che sia. Anche questo è un passaggio decisivo che induce a compiere l’uscita fondamentale da un io autoreferenziale che ha bisogno di imparare a misurarsi con la realtà e la realtà dell’altro, non solo come limite ma non meno come possibilità irripetibile di superamento del centramento narcisistico su di sé, per imparare il valore e la stima di sé nell’apertura all’altro e nella donazione del servizio, dell’amicizia, dell’amore. Così si impara che la forza e l’equilibrio di una personalità è quasi interamente proporzionale alla capacità di apertura, di relazione, di decentramento da sé, di donazione.

Il terzo rapporto è quello con la fede. Posto così, può sembrare un rapporto trattato come uno tra altri, giustapposto come altre dimensioni a una personalità compiuta in se stessa. In realtà la questione cruciale che questo rapporto pone è, invece, proprio quello tra la fede e la vita, tra l’esperienza cristiana e l’esistenza personale. Ma esso non può essere citato che a questo punto, dal momento che non riesce a costruirsi che dentro il percorso di una struttura di personalità che si forma e dentro una rete di relazioni in cui la persona respira secondo tutte le sue dimensioni. Solo che la fede non può aggiungersi alla fine, ma ha bisogno di stare dentro il processo fin dall’inizio.

Questa esigenza di fondo sposta l’attenzione su educatori e quanti sono di riferimento a ragazzi e giovani. Insieme alla integrazione ideale di un progetto educativo, l’esperienza condivisa con gli educatori deve trasmettere, ben al di là di un rispetto formale e di una coerenza esteriore, un senso spirituale cristiano dell’esistenza in tutti gli aspetti della vita personale e di quella condivisa nel gruppo e nella comunità. È questa la sfida a cui non solo lo scoutismo è posto dinanzi. Non credo di forzare i confini di affermazioni plausibili in questo contesto dicendo che bisogna scontare una fatica, pratica più che teorica, e cioè quella di integrare due prospettive che non sempre riescono felicemente a coniugarsi, se non altro per la assolutezza o l’assorbenza con cui ciascuna di esse – esperienza ecclesiale e esperienza scoutistica – si propone alla pratica di vita di giovani e di adulti. Quella del rapporto tra fede e scoutismo sul piano della formazione umana e cristiana è, in ogni caso, una sfida inevitabile e salutare. Alla fine si tratta di suggerire e indicare un orizzonte trascendente di senso a una prospettiva di vita dalla quale esso viene con molta naturalezza espunto non solo per la capacità di un contatto coinvolgente e intenso nel gruppo e con la natura di essere percepito ed elaborato come orizzonte autosufficiente di senso, ma anche per la penetrazione diffusa di una sensibilità post-moderna che scoraggia ogni tentativo di alzare gli occhi verso l’alto.

In questo modo però si conferma il punto di forza della proposta scoutistica, che consiste nel carattere integrale dell’esperienza educativa, e quindi nel superamento della riduzione intellettualistica e della forma nozionale dell’apprendimento complessivo di idee, valori e pratiche. Una tale impostazione integrativa degli aspetti costitutivi della persona e dell’esperienza dovrebbe essere assunta con una maggiore consapevolezza e senso di responsabilità dagli educatori e, in particolare, da chi è chiamato ad accompagnare il cammino della maturazione alla fede nell’associazione e nella comunità ecclesiale. È l’auspicio – e forse anche di più: un proposito – che ci lascia questo primo centenario dello scoutismo cattolico in Italia.

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