Lettera pastorale
«Attirerò tutti a me» (Gv 12,32)
Il frutto spirituale del giubileo
L’esigenza di una fede viva
La conclusione dell’anno giubilare ci consente uno sguardo d’insieme su questo tempo straordinario che ci ha visti tutti intensamente coinvolti in una esperienza che chiedeva di riscoprire la forma sorgiva e il volto originario del nostro essere cristiani. In linea con il significato biblico e storico del giubileo, ci siamo sentiti non solo invitati ma messi nelle condizioni di rimuovere tutto ciò che aveva oscurato o deformato, o anche solo impoverito e limitato, la brillantezza del tempo dell’incontro, il tempo “del giuramento e dell’alleanza” di Dio con noi (cf. Ez 16,8), del suo amore che “ci chiamava dall’Egitto” (cf. Os 11,1).
A giubileo concluso, viene spontaneo tentare un bilancio e chiedersi che cosa ne possiamo e dobbiamo trarre. Una riflessione che mi ha accompagnato lungo questi mesi e che abbiamo già avuto modo di condividere, è legata alla qualità del nostro essere credenti e della trasmissione della nostra fede: due aspetti profondamente connessi l’un l’altro, dal momento che la missione non ha mai un carattere impersonale e neutro, e tantomeno tecnico o meramente nozionale e informativo, ma è in semplicità l’espansione di una esperienza così coinvolgente da diventare in qualche maniera toccante e contagiosa per chi vi entri in contatto. Ciò che emerge è la difficoltà a riscontrare i tratti della vitalità e dell’entusiasmo – della gioia (cf. Gv 15,11; Fil 4,4) – in tanti cristiani, e di conseguenza la loro incapacità di essere attrattivi.
Una fede che attrae
Una tale attrattività non ha nulla di seduttivo o di strumentale. Non si tratta di esercitare un fascino esteriore artificioso, in una sorta di marketing del religioso o tantomeno di proselitismo, ma di manifestare una identità, di essere sé stessi esprimendo con naturalezza il proprio modo di essere, di sentire, di vivere. Lo ha affermato in maniera programmatica papa Benedetto XVI (poi ripetutamente ripreso da papa Francesco), quando al santuario di Aparecida ha detto: «La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per “attrazione”: come Cristo “attira tutti a sé” con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della Croce, così la Chiesa compie la sua missione nella misura in cui, associata a Cristo, compie ogni sua opera in conformità spirituale e concreta alla carità del suo Signore» (Benedetto XVI, 13 maggio 2007).
Il punto decisivo di ciò che il giubileo ci lascia – forti dell’incontro straordinario con la misericordia divina – è innanzitutto l’esigenza di vitalità della fede di quanti ci dichiariamo cristiani, il vigore interiore della sua convinzione e dell’adesione ad essa, il suo potere di irradiazione. Su questo dobbiamo ora appuntare in via prioritaria la nostra attenzione, innanzitutto interrogando il nostro personale cammino, per poi passare a scrutare insieme il testo biblico, la tradizione cristiana, la riflessione credente. In ordine al nostro personale cammino la condivisione in sede di Consiglio pastorale diocesano ci ha fornito un quadro di riferimento, nei termini che si possono riassumere come segue.
La nostra esperienza
La forza e la vitalità della vita cristiana hanno una radice personale legata al primo incontro con il Signore. La domanda sulla capacità di trasmissione della fede trova la prima traccia di risposta nel cammino personale di ciascuno. È da questo che può prendere le mosse un rinnovamento dell’azione pastorale all’altezza delle attese delle persone e del mondo di oggi.
La condivisione, come quella avvenuta in sede di Consiglio pastorale diocesano, segnala un tratto comune in cui si esprime un intreccio misterioso tra ordinarietà di esperienze e profondità di coinvolgimento personale tale da segnare per la vita.
Un primo tratto è la fase biografica in cui si collocano le prime decisive esperienze, e precisamente nell’infanzia e nell’adolescenza, pur con le inevitabili eccezioni. È una fase in cui a giocare un ruolo importante sono vari aspetti, in un intreccio molto differenziato tra loro. Conta molto l’esperienza di gruppo, soprattutto di carattere straordinario come un campo-scuola o anche solo l’incontro ordinario di catechesi, e prima ancora quella della famiglia (quando essa è significativa); viene poi la figura di un prete, di una suora, di un/a catechista o altri, che ha lasciato un segno, a volte accompagnando negli anni, altre volte rimanendo legati ad una stagione circoscritta della vita; in ogni caso l’aver sentito l’attenzione e la cura personale di un adulto educatore e la percezione di aver incontrato un modello di cristiano hanno svolto un ruolo decisivo. Determinanti dunque sono le persone incontrate e il clima di fraternità, l’atmosfera creata da persone che si vogliono bene, nel gruppo di coetanei e più in generale nella comunità parrocchiale.
Su questo nucleo – e oltre determinate stagioni della vita – si innestano percorsi personali nei quali viene avvertito in modo singolare il momento o il fatto dell’incontro personale con il Signore e l’inizio di un rapporto con Lui che lascia un segno profondo e accompagna per la vita. In questo quadro generale, non mancano singoli aspetti che segnano con motivi specifici la scoperta del Signore e la relazione personalissima con Lui, come: l’incontro con i poveri, con gli anziani e le esperienze di servizio ecclesiale soprattutto nell’ambito del mondo del bisogno; la condivisione della comprensione dei contenuti della fede nella catechesi e di un cammino di ricerca nell’orizzonte della fede, come pure la lettura di un libro in particolare, con la curiosità di capire chi è “questo Dio”; l’ascolto, la meditazione e lo studio della Bibbia, che si può rivelare anche folgorante; la preghiera e l’adorazione eucaristica, unita al gusto del silenzio; la vita sacramentale; l’esperienza del pellegrinaggio.
L’incontro con Gesù spesso assume l’aspetto di un percorso che, nato in un ambiente favorevole, lentamente si sviluppa e matura; altre volte è come una specie di innamoramento, un evento che accade e cattura, qualcosa di imponderabile, che non si può semplicemente trasmettere, al più narrare, per poi seguire ciò che accade in altri, per i quali si può favorire aspettando i tempi di ciascuno e rispettandone l’unicità e la sacralità.
Importante anche il senso personale di una chiamata specifica, in un intreccio formidabile tra intimità di un cammino e di un dialogo con il Signore e senso di legame con la comunità, con cui relazionarsi a partire dal cuore. E poi ancora l’incontro con l’esperienza della santità e il desiderio di essere “come loro”. Non ultimo l’esperienza del dolore e il passaggio della croce, ma anche quella della gratitudine e della fedeltà, per rimotivare il cammino e legarsi al Signore nell’inquietudine e nella ricerca, accettando che la relazione con il Signore sia in divenire e cresca; sfidata come è continuamente dall’alternativa tra camminare con o senza il Signore, essa è desiderio e suscita stupore e meraviglia.
Nel rapporto con il Signore c’è un momento di scelta volontaria della direzione da intraprendere, ma anche la curiosità verso qualcosa che attrae, che poi si rivela come l’amore del Signore che ci prende personalmente e ci raduna. Nella diversità delle esperienze sempre singolari, rimane l’esigenza di modelli, di persone che siano segno di ciò in cui credono, e quindi della loro coerenza e della loro testimonianza; abbiamo bisogno di ricevere e dare cura, rimanendo fedeli al Signore, tendendo verso l’alto ma anche aprendoci agli altri e alla cura reciproca nella comunità ecclesiale e al di fuori di essa. Non mancheranno fragilità e paura, ma esse vanno assunte come premesse e condizioni per acquisire fiducia e fede, per diventare, con la propria esperienza di Chiesa, lievito di fede e di fraternità in tutti gli ambienti, ricominciando sempre dall’aprirsi, dall’accogliere e dal prendersi cura di tutti, soprattutto dei più deboli. In ultimo, ciascuno è chiamato a coltivare lo stupore per la cura di Dio “per me”. Il Signore attrae attraverso la presenza di cristiani veri, di credenti autentici.
La radice teologale
L’esperienza di essere attratti dall’amore di Dio e dall’incontro con Lui grazie a Gesù nella forza dello Spirito Santo ha un carattere inconfondibilmente personale che non è mai riconducibile a schemi prefissati o riproducibili. La difficoltà di chi non riesce a riconoscersi in una tale esperienza – poiché anche questo registra la storia: la non fede –, o anche soltanto la fatica a tenere viva la fede che un tempo si è accesa dentro, rischia di sollevare interrogativi non pertinenti. Come ad esempio quelli che vengono dal pensiero che ci voglia solo un po’ di sforzo, o che sia questione di sensibilità e di psicologie particolari, o che a decidere sia l’ambiente o anche la specifica vicenda personale e sociale.
Seppure la storia religiosa dell’umanità presenti una varietà infinita di idee e di modalità di espressione, nondimeno la rivelazione cristiana ci mette di fronte a qualcosa di inaudito, con il quale l’umano riconosce un’intima corrispondenza ma che esso non può in alcun modo costruire o creare. L’inaudito è la rivelazione che Gesù fa del mistero del Padre, del suo amore che egli interpreta e manifesta con la vita e con la morte di croce che si schiude sulla risurrezione. La rivelazione che Gesù compie, perciò, può essere racchiusa nella seguente espressione: essa consiste in un movimento di attrazione che ultimamente risale all’attrazione esercitata dal Padre.
L’attrazione del Padre
«Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (Gv 6,44-46).
Il Gesù di Giovanni dunque fa risalire al Padre la prima origine di un movimento che si attua nella fede di chi è toccato da Lui e che comincia come una sorta di attrazione. Questa attrazione viene esercitata su tutti, ma è percepita e corrisposta da ciascuno in modo personale, e perciò pienamente libero e consapevole; nulla di meccanico o di automatico, dunque. Senza l’iniziativa del Padre, nulla si attiva.
È sorprendente riflettere quanto tutto ciò sia conforme alla natura dell’esperienza umana, la quale non procede solo per via di previsione, di progettazione o di programmazione, di analisi o di studio, o altro di simile, ma – per una parte importante dell’umano – come accadimento imprevisto. Alcune tra le cose più importanti per la vita di una persona hanno semplicemente il carattere dell’imprevisto e della sorpresa: capitano, accadono. Tale è il caso dell’incontro con l’amore, con la bellezza, con l’amicizia, con un ideale, con il desiderio di conoscenza, con una qualunque passione che a un certo punto afferra e sequestra. C’è qualcosa che precede in questo genere di esperienze, di cui però non si ha cognizione o almeno non ancora nella forma della novità che l’incontro che capita produce e fa percepire.
L’attrazione di Gesù
L’iniziativa del Padre non si compie solo nella dimensione interiore della persona del credente; essa è inseparabile da un’iniziativa che chiamiamo esteriore solo per sottolineare la sua dimensione storica pubblica. E infatti Gesù, in forza dell’incarnazione, si presenta come l’inviato pieno e definitivo di Dio suo Padre, lo stesso che toccando il cuore di uomini e donne li mette, per così dire, in sintonia con la presenza, la persona e la parola di quel Gesù che hanno incontrato sulla loro strada. Così che l’azione interiore del Padre è indispensabile e precede l’incontro con Gesù, ma in modo tale che chi lo incontra, e si dispone a riconoscerlo nell’ascolto e nella fiducia in lui, riceve quell’“istruzione” che gli consente di assecondare liberamente e consapevolmente l’attrazione da cui si sente interiormente toccato aderendo simultaneamente a Gesù stesso. Il credente accoglie la sollecitazione del Padre nell’atto in cui incontra Gesù, lo riconosce, se ne lascia conquistare e aderisce a lui incondizionatamente.
Rimane la possibilità, per lo più imperscrutabile dal di fuori, di resistere o di non riuscire ad aprirsi all’azione interiore di Dio che si congiunge con l’azione esercitata da Gesù mediante la sua persona e la sua vita; e tuttavia l’azione del Padre non è mai discriminante nei confronti di alcuno («Dio non fa preferenza di persone», At 10,34) e la possibilità di una scoperta è sempre aperta. Il Padre è dunque la fonte di ogni appropriata divina attrazione nella libertà e nell’amore. Dato questo per acquisito, il Gesù di Giovanni parla anche di una attrazione che fa riferimento alla sua persona. Infatti leggiamo ancora: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). E aggiunge: «Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,33).
Gesù aveva compiuto il festoso ingresso a Gerusalemme, seppure in un clima sospeso per l’intrecciarsi di oscuri disegni di cui egli ha una nitida percezione, al punto da essere turbato e tuttavia subito sostenuto da una voce dal cielo che egli interpreta come soccorso da parte del Padre; con il Padre egli entra in dialogo di preghiera, perché ormai è giunta la sua “ora” e la glorificazione è imminente. L’innalzamento sulla croce è l’atto della glorificazione, cioè della partecipazione dell’umanità di Gesù alla comunione della vita divina, poiché il gesto supremo del dono di sé che egli compie, sempre in unione con il Padre, è atto di obbedienza, di dedizione, di amore, per il Padre e per i fratelli. Nel momento della morte avviene proprio la vittoria su di essa, la risurrezione, e cioè il manifestarsi della gloria del Padre che lo ha chiamato e con il quale è vissuto ed è morto sempre in unione d’amore.
Il tipo di morte a cui Gesù va incontro, paradossalmente (per la bruttezza proprio del dolore, della morte, della croce) gli consentirà di esercitare una attrazione verso tutti, di diventare cioè una forza di amore che salva. L’attrazione qui indica appunto la forza di un amore sconvolgente, che toccherà tutti a cominciare da quelli che lo hanno trafitto, i quali volgeranno lo sguardo verso di lui con infinito sgomento e confusione, ma anche con desiderio e misteriosa attrazione (cf. Gv 19,37). Chi entra in questo movimento di annientamento e di glorificazione si unisce a Gesù che rivela con la sua totale donazione l’amore del Padre: ormai è solo attraverso di lui che il Padre attirerà tutti. Attraverso di lui che sale al Padre sull’asse verticale della croce, nello stesso tempo aprendosi a tutti i fratelli nell’abbraccio orizzontale della stessa croce, ora tutti potranno avere accesso al mistero del Padre come mistero di amore che si compie nell’obbedienza del Figlio e nella comunione dello Spirito Santo.
«Si sentirono trafiggere il cuore» (Gv 2,37)
È legittima a questo punto la domanda sul modo in cui l’attrazione del Padre attraverso il Figlio viene esercitata. Una pista che può aiutare a trovare la risposta si può individuare a partire dallo sguardo che il trafitto richiama su di sé secondo Gv 19,37. Perché e come il crocifisso attira lo sguardo degli astanti e in particolare di quelli che lo hanno inchiodato alla croce? Certamente la scena di dolore che essi si trovano dinanzi non lascerebbe indifferente nessuno. Ma qui si vuole dire qualcosa di più della naturale emozione che una scena di umano dolore, tanto più se crudele, suscita. Qui si tratta piuttosto della comprensione del senso di quel dolore, un dolore innocente e un dolore per amore.
Lo spiega bene ciò che accade alla prima predicazione di Pietro dopo la Pentecoste. Secondo quanto gli ascoltatori possono intendere, c’è un disegno di salvezza che Dio ha predisposto portandolo a compimento in Gesù; un compimento invero del tutto particolare, dal momento che si compie con la sua morte, alla quale Dio, il Padre, risponde con il risuscitarlo dai morti. Ciò che ultimamente tocca, fa pensare e colpisce, a partire dall’ascolto, è la presa di coscienza degli ascoltatori di essere parte in causa nella morte di Gesù: «Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36). Lo scartato e il trafitto è in realtà il prescelto di Dio, anzi il suo prediletto, o ancora «la pietra d’angolo» (At 4,11), ora seduto alla destra del Padre, partecipe della medesima gloria.
Il libro degli Atti registra la reazione degli ascoltatori nel modo seguente: «All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”» (At 2,37). Nasce il bisogno di correre ai ripari, per così dire, di riparare, poiché dentro esplode un’intima afflizione, più ancora un’attrizione, una pena inconsolabile per aver ricambiato inchiodando alla croce l’amore da cui scaturisce il consegnarsi di Gesù; egli proprio sulla croce quell’amore lo ha pienamente manifestato ed effuso (donando lo Spirito d’amore). Il cuore di chi ascolta la parola che rivela il senso dei drammatici accadimenti di Gerusalemme non può che sentirsi trapassato da un dolore lancinante, da un rammarico infinito nei confronti di qualcosa che non si doveva fare.
Proprio l’intreccio inestricabile tra ciò che era necessario, nel disegno imperscrutabile di Dio, e che però non si doveva fare, per il rifiuto e il tradimento che l’hanno storicamente prodotto, forma il nucleo di una attrazione in cui si condensano dono d’amore di Gesù, debito di riconoscenza, dolore per essere stati strumenti di quella morte, desiderio di riparare e di fare ciò che si rivela necessario per corrispondere a quell’amore.
Il nucleo incandescente
Possiamo affermare, senza timore di esagerare, che qui siamo al nucleo incandescente di ogni autentica esperienza di fede cristiana. E una esperienza religiosa che non abbia qualcosa di questo nucleo, difficilmente si potrà qualificare come cristiana e ancor meno potrà mostrare i frutti spirituali ed ecclesiali di un’autentica esperienza cristiana. Tale insanabile tensione tra necessario (disegno divino) e ingiustificato (rifiuto umano) deve rimanere sempre viva, come una ferita aperta, che non si rimargina, perché possa darsi realmente fede, e una fede insieme solida e ardente.
La storia della santità lungo i due millenni che abbiamo alle spalle presenta una serie innumerevole di testimonianze convergenti in tal senso, a cominciare da san Paolo, del quale possiamo citare poche singole espressioni che condensano tutta una esperienza e una visione della vita ispirate dalla fede. «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).
«L’amore del Cristo infatti ci possiede» (2Cor 5,14). «Egli è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui» (1Ts 5,10). Queste ultime parole in particolare ci suggeriscono che una vita sotto il segno dell’amore di Cristo, compiuto pienamente sulla croce, non può che essere ricerca continua e appassionata di una corrispondenza, di una partecipazione, di una crescente dedizione d’amore. Perciò san Paolo dice anche, ormai sul finire del suo intensissimo ministero apostolico: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù» (Fil 3,12). Quale attrazione non ha esercitato la sua esperienza sulla via di Damasco (cf. At 9,1-19; 22,6-11; 26,12-18; 1Tm 1,12-17)? E poi ancora, solo per citare ancora un saggio esemplare: «Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).
Lasciarsi conquistare
Bisogna essere stati conquistati davvero per rimanere cristiani in un tempo come il nostro e per rendere testimonianza ad altri di che cosa significhi diventarlo, cristiani. L’esigenza è così seria e profonda che è in gioco, insieme alla vita personale di ciascuno, il nostro essere Chiesa e il suo futuro. I segnali di uno sfaldamento della struttura ecclesiale con la diminuzione del clero e il calo della pratica religiosa, almeno nel nostro Occidente, è ormai un processo in fase avanzata di svolgimento, che non presenta motivi di sorta per immaginare una inversione di rotta. Sappiamo bene come tutti, nelle varie Chiese locali, stiamo ricorrendo a misure concrete per far fronte alle esigenze di una attività pastorale che non riesce a trovare nuove vie e continua ripetitivamente a proporre i modelli che il passato ci ha consegnato.
Anche nella nostra diocesi abbiamo avviato un ripensamento dell’Iniziazione cristiana delle nuove generazioni e una riorganizzazione della pastorale delle parrocchie raccogliendole in Unità di collaborazione. Si tratta di misure necessarie che dobbiamo utilizzare con serietà e coscienziosità, ben sapendo che al momento non disponiamo di idee migliori e soprattutto che esse possono dare buoni frutti. Ma la condizione perché questo avvenga è la riscoperta del nucleo incandescente della vita cristiana, che consiste nell’entrare nel “campo magnetico” di attrazione dell’amore di Dio in Gesù e nel coltivare la relazione di fede che egli stabilisce tra noi e Lui in modo da accrescerne costantemente la qualità e da farla diventare a sua volta attrattiva, contagiosa.
Come fare
Come fare per raggiungere questo cuore dell’esperienza cristiana così da (ri)appropriarcene e tenerlo sempre vivo? Prima di ogni altra cosa è importante prendere atto del fatto che ciascuno ha un suo percorso personale, quanto ai tempi e ai modi, nell’incontrare Gesù e Dio e nel portare avanti la relazione di fede, amore e speranza con il Figlio e il Padre nello Spirito. Ciò che però deve accomunare la condizione di base o di partenza dell’esperienza cristiana è proprio una relazione personale con Dio, che abbia la forma io-tu e, più precisamente, l’atteggiamento indivisibilmente filiale e fraterno.
Concretamente questo avviene non in una condizione “solipsistica” o individualistica, poiché è dentro le relazioni tra credenti, cioè nella Chiesa (che non costruiamo noi ma alla quale veniamo aggregati, cf. At 2,41; 5,14), che prende forma la relazione personale con il Signore destinata a configurarsi come unica e inconfondibile. Perciò la fraternità ecclesiale è insieme fraternità in Gesù e relazione filiale, allo stesso tempo personale ed ecclesiale, con Dio nell’amore avvolgente dello Spirito Santo.
Tutto comincia con l’esperienza di chi ha già incontrato il Signore e cammina con Lui. Ogni vero credente è trasparenza della vicinanza e dell’amore di Dio; il suo stile di vita e la condivisione testimoniale formano la modalità originaria della trasmissione dell’incontro con il Signore. In questo senso, non siamo noi propriamente ad attirare, ma è Dio che attira a sé stesso attraverso di noi. Tutti quelli che ci incontrano, se davvero colgono in noi una testimonianza autentica, sono chiamati e destinati ad andare oltre noi, come del resto è avvenuto a noi, sia che si tratti della famiglia, dell’incontro con un adulto, un gruppo, una comunità o altro, tutti necessari per un incontro con Dio che si definisce in maniera profondamente personale e allo stesso tempo cammina con la Chiesa. In caso contrario, si rischia solo una dipendenza dal testimone, e non una relazione con il Testimoniato, che può prendere solo connotazioni fuorvianti che limitano la libertà e la personalizzazione del cammino, o infantilizzano, se non accade perfino qualcosa di peggio. Perciò la Scrittura ci fa conoscere anche una accezione negativa dell’attrazione come seduzione, costrizione o inganno (cf. At 20,30; Gal 2,13).
Due condizioni
In conclusione ci sono due condizioni per conoscere l’attrazione del Signore e permetterle di agire in noi così che possiamo dare senso cristiano compiuto alla nostra persona e alla nostra vita. La prima condizione è l’ascolto, che prende le forme più diverse nelle varie tappe della vita e si definisce dentro l’ambiente e la storia di ciascuno. È ascolto del Signore attraverso i primi testimoni della fede in famiglia, nella parrocchia e altrove, e poi attraverso la personalizzazione crescente del processo formativo che conduce al dialogo della preghiera, alla conoscenza e alla meditazione (personalmente o insieme ad altri) della Sacra Scrittura, alla condivisione delle esperienze spirituali, alla celebrazione dei misteri come luogo di un maturo incontro con il Signore nella Chiesa coltivato come esperienza e come conoscenza.
La seconda condizione è la condivisione e la testimonianza, intese come servizio specifico, oltre che come impegno personale in tutti gli ambienti. Qui entra in gioco anche la dimensione dell’azione pastorale della comunità ecclesiale. Nella specifica forma organizzativa che essa può prendere nei diversi contesti e Chiese in cui viene adottata, l’iniziativa pastorale deve custodire sempre queste caratteristiche: la dimensione spirituale di incontro personale con il Signore, la dimensione conoscitiva del Signore a partire dalla Scrittura fino alla storia dei santi e oltre, l’attenzione al cammino personale di ciascuno, soprattutto nelle fasi iniziali dell’esperienza di fede ma senza perdere di vista che chiunque ha bisogno di un confronto spirituale e della compagnia dei fratelli nella fede per andare avanti.
Un viatico per il cammino
Il viatico è in realtà il Signore stesso, con la sua grazia che ci accompagna e ci sostiene passo passo. Ma ora sappiamo che dal giubileo portiamo l’esigenza di un rapporto con Lui che ci veda personalmente e appassionatamente coinvolti. Allora il viatico non è solo un dono, su cui contare con sicurezza e da cui sentirsi consolati; è non meno anche la volontà e la decisione di perseguire e inseguire con tutte le nostre forze ciò che abbiamo scoperto così vitale per il nostro essere credenti e per condurre secondo verità e coerenza il nostro umano cammino. È qualcosa da chiedere, innanzitutto. Ma è anche qualcosa su cui lavorare: lavorare su noi stessi e sul nostro essere già parte di una comunione di cui il Signore è l’attore protagonista, l’inarrivabile ma sempre da inseguire promotore supremo. Sperimenteremo allora di essere parte di una cordata, lungo la quale, tra emulazione e soccorso reciproco, scopriremo di essere un popolo in cammino verso l’alto.
✠ Mariano Crociata
Latina, 28 dicembre 2025, chiusura dell’anno giubilare

