Abbiamo bisogno di respiro
Lettera ai presbiteri e a tutta la comunità ecclesiale in prossimità della Pasqua
Cari confratelli nel presbiterato,
la celebrazione della Messa crismale è una circostanza propizia per tornare a riflettere e pregare sulla grazia della nostra vocazione al ministero, sul dono del sacramento dell’Ordine, sul servizio pastorale a favore delle comunità che ci sono affidate e dell’intera comunità diocesana. Rivolgendomi a voi in questa singolare circostanza desidero, nello stesso tempo, abbracciare l’intera comunità diocesana, diaconi, consacrati, fedeli laici, ai quali sono pure indirizzate le seguenti riflessioni.
La peculiarità della nostra responsabilità pastorale ci consegna un grande compito: suscitare e risvegliare la fede nei nostri fedeli mediante l’annuncio della Parola di Dio, far passare in loro la grazia sacramentale, essere segno di unità e costruttori di comunione, guidare con una parola competente ed efficace e con uno stile cristiano di vita le comunità e le persone, incoraggiandole a guardare al futuro con fiducia e speranza.
Proprio quest’ultimo punto oggi presenta forse le maggiori difficoltà. Su di esso ho pensato di richiamare in modo particolare la vostra attenzione e quella di tutti i collaboratori e i fedeli. Il motivo che mi spinge a farlo viene dalla constatazione che in tanti di noi, e attorno a noi, prevale una sensazione di fatica, di affanno, di stanchezza, di delusione e scoraggiamento, piuttosto che di serenità e di gioia. Nella misura in cui le cose stanno così, c’è motivo di preoccuparsi, sia perché è il segnale di un malessere da contrastare, sia perché ne risente fortemente il nostro ministero, chiamato ad annunciare e testimoniare la gioia del Vangelo.
Si coglie purtroppo un senso di scontento che serpeggia, e talora anche traspare dai volti, da parole, scelte, atteggiamenti. La tentazione che prontamente si presenta in tali casi è duplice. Innanzitutto, la ricerca di uno o più responsabili del nostro scontento. Si dà il caso che ci siano anche delle responsabilità individuabili nel determinarsi di certe situazioni; nondimeno la logica del capro espiatorio non aiuta a capire e tanto meno a trovare soluzioni. E poi, noi in prima persona non siamo mai del tutto estranei alle cause del nostro malessere. Le situazioni di difficoltà e di fatica si producono il più delle volte per una serie complessa e non sempre decifrabile di fattori. Concentrare l’attenzione solo su una o poche cause (che spesso individuiamo in precise persone considerate colpevoli) non è solo scorretto, ma soprattutto finisce con l’alimentare il malessere, poiché la semplificazione non aiuta a risolvere, bensì rende ancora più difficile ogni tentativo di cambiare le situazioni, con l’effetto, anzi, di aumentare lo scontento, immettendo ancora di più in un circolo vizioso senza via d’uscita.
Senza dubbio, serve che cerchiamo di dipanare la complessa realtà che attanaglia la nostra vita e passarne in rassegna gli aspetti più problematici; e serve ancora di più guardare in faccia e affrontare le fragilità psicologiche, gli errori commessi, le frustrazioni e i fallimenti sperimentati, le vicissitudini relazionali, le delusioni pastorali, incomprensioni e offese. Serve cercare di capire, di farsi una ragione, di trovare soluzioni, soprattutto di provare a ricominciare quando tutto sembra finito e non si ha nessuno voglia di riprovare. Tutto questo è importante e necessario, ma ha bisogno di senso e di motivazioni per essere compiuto; ha bisogno, cioè, di un’anima, di un alito, di respiro che – nell’eloquenza della metafora – non è altro che lo Spirito di Dio, lo Spirito di Gesù risorto. Perché è lo Spirito che dà senso, cioè motiva e, spingendo in avanti, indica e apre cammini non immaginati quando tutto sembrava senza via d’uscita.
Nella Messa crismale, durante la quale rinnoviamo le nostre promesse e in qualche modo viene ridato smalto al nostro essere stati conformati a Cristo pastore, siamo invitati a tornare ad attingere alle sorgenti del sacramento dell’Ordine. Tornare a quelle sorgenti significa assaporare, assumere e assimilare la grazia del ministero, che si alimenta nel suo esercizio e in una esistenza intessuta di rapporto personale con Gesù nella preghiera, nella confessione, nei sacramenti, nell’incontro spirituale, nell’offerta della fatica, dei dolori e delle gioie, nelle relazioni sacramentali dell’unico presbiterio e di tutti i fratelli nella fede che ci sono dati come amici e compagni di viaggio.
Grazie, soprattutto, alla relazione con il Signore assiduamente coltivata, può sgorgare in noi un senso nuovo di fiducia e di speranza; fiducia e speranza che non possono dipendere dalle sole nostre capacità, e nemmeno dai risultati della nostra azione pastorale, esposta come è a successi e insuccessi imponderabili, perché diretta a persone che scelgono e decidono liberamente. Capacità e risultati non sono da deprezzare, e quando ci è dato di sperimentarne qualcuno, dobbiamo rallegrarci dei segni che la grazia di Dio dispone sul nostro cammino, perché ci dice che Egli non ci abbandona, ma anzi continua a fidarsi di noi e a servirsi della nostra collaborazione. Ma non possiamo dipendere da quei segni per tenere alto il tenore del nostro spirito e per testimoniare la dedizione della nostra vita alla causa del Vangelo. La passione e l’entusiasmo solo lo Spirito li sa e li può generare. Non possiamo attendere segni di gratificazione per dare slancio al nostro ministero, ma piuttosto dobbiamo mettere le ali alla nostra fede, per disseminare di opere di grazia il nostro servizio pastorale.
Non cediamo pertanto all’avvilimento e alla rassegnazione, non diamo spazio dentro di noi al sentimento dello scontento o, peggio ancora, della rabbia. Non importa che le cose non vadano per il nostro verso e che i risultati attesi non arrivino. Prendiamo esempio e accogliamo grazia da Gesù negli eventi pasquali: affidandosi al Padre in un dialogo intimo e serrato, egli trova la forza (cioè lo Spirito) per la decisione suprema e il coraggio di affrontare perfino il passaggio definitivo.
Preoccupiamoci, perciò, di rendere onore (cioè il culto di una fede viva) a Dio con la nostra vita e di servire i fratelli nella loro fede e nelle loro richieste di aiuto, solidarietà, fraternità. Tanta gente soffre oggi – e forse bisognerebbe dire che tutta la società soffre – per mancanza di speranza; e mancare di speranza è come non avere l’aria per respirare. La nostra vita respira quando c’è abbastanza spazio e possibilità per guardare avanti, per vedere oltre, per poter camminare e affrontare tutto con coraggio in vista di un obiettivo, di una meta. Noi, con la potenza della grazia che agisce attraverso il ministero, abbiamo la possibilità e la responsabilità di trasmettere ai nostri fratelli e sorelle questo senso di fiducia, di futuro, di speranza, di coraggio, di rimetterlo continuamente in circolo nelle nostre comunità e nell’intero tessuto della vita sociale. Il Signore non si è dimenticato e non ha accorciato il suo braccio.
Il segno che il respiro ritorna nei nostri cuori, nelle relazioni e nella comunità tutta, si riscontra semplicemente e concretamente in quei gesti e in quelle iniziative comuni che vengono abbracciati e portati avanti con partecipazione gioiosa e coinvolgente cordialità. L’impronta che abbiamo voluto dare quest’anno al cammino pastorale è uno di tali gesti. La Lettera su “Famiglia e Chiesa, insieme per educare” chiede di lavorare per una integrazione crescente tra famiglia e comunità, secondo la disponibilità e la capacità che ciascuno può offrire. La stessa cosa vale per il Progetto Zero-diciotto, in fase di elaborazione, il quale non vuole aggiungere ulteriori impegni, ma indicare la risposta più alta ad una esigenza di incontro con il Signore e di accompagnamento assiduo per le nuove generazioni, che moltiplicherà, più che le fatiche, le occasioni di grazia e di consolazione dello Spirito.
Per far questo è necessario annodare sempre di nuovo i legami e intensificare il dialogo con i nostri collaboratori laici, quelli attuali e i potenziali. Bisogna rompere l’isolamento dal grande contesto sociale che ci circonda e l’accerchiamento dei soliti che rischiano talora di fare da schermo per i molti che vorrebbero avvicinarsi o essere avvicinati. Per far questo bisogna coltivare fede, praticare ascolto, trasmettere l’entusiasmo di credere e la gioia di condividerlo con altri.
Cari confratelli, ho voluto diffondere tra tutti i fedeli questa lettera a voi indirizzata perché anch’essi soffrono fatiche simili. Così anch’essi sanno quale sia il nostro intendimento e il nostro impegno, e quindi anche quale la loro responsabilità e la loro desiderata collaborazione. Non dobbiamo avere paura di perderci o di perdere qualcosa, perché la via per ritrovare noi stessi e ciò che di più prezioso abbiamo e a cui teniamo, è intessere nuove relazioni e rendere partecipi altri del nostro dono e perfino del nostro servizio pastorale, che avrà sempre più bisogno dell’opera di tutti i credenti in Gesù, abilitati alla missione non da autorizzazioni e permessi, ma da colui che ci ha resi tutti fratelli ed eredi nel battesimo, vera celebrazione pasquale originaria – Pasqua personale – di ciascuno di noi.
L’augurio per la Pasqua imminente si nutre di queste considerazioni all’unico scopo di vedere sgorgare di nuovo dentro di voi, come in me, la speranza, la fiducia, il coraggio, vincendo ogni amarezza e pessimismo, così da rispondere sempre meglio alla chiamata del Signore e divenire strumenti idonei alla diffusione del suo Vangelo, per la gloria di Dio e la gioia nostra e dei fratelli.
✠ Mariano Crociata
Latina, 17 aprile 2019, nella celebrazione della Messa crismale