Veglia di Pentecoste: un passo da fare verso una comunità in comunione

Ieri sera, nella cattedrale di San Marco a Latina, il vescovo Mariano Crociata ha presieduto la Veglia di Pentecoste.
Di seguito l'omelia pronunciata da mons. Crociata.

OMELIA

Veglia di Pentecoste

19 maggio 2018

+ Mariano Crociata

Ormai è quasi giunta a metà la serie degli incontri che sto svolgendo con i rappresentanti e i collaboratori delle parrocchie della nostra diocesi. Si tratta, come sapete, di incontri di scambio e di conoscenza. Personalmente ne esco sempre molto arricchito in consapevolezza e responsabilità. Dai segnali che colgo e dalle risonanze che mi giungono vedo che è una esperienza significativa anche per le stesse comunità parrocchiali, che trovano in questo tipo di incontro un’occasione di conferma, di incoraggiamento e di crescita.

Scopro dovunque persone impegnate, spesso con grande dedizione, che insieme al parroco permettono alla parrocchia di assolvere alla sua missione pastorale. In queste occasioni insisto sullo sforzo da fare per diventare comunità più unite e concordi. Troppo spesso infatti si nota che tutti si danno un gran da fare ma la parrocchia non viene percepita come una comunità né dall’interno né dall’esterno, perché ogni gruppo, se non ognuno, lavora per conto proprio, a compartimenti stagno. A volte sembra di essere di fronte a una organizzazione anche molto attiva, più che a una comunità animata dal senso della comunione.

La Pentecoste, nella cui celebrazione entriamo con questa Veglia, ci chiede di fare un passo in avanti nella direzione di una comunità in comunione. Innanzitutto ricordandoci di quanto ci siamo già detti con la Lettera pastorale, e cioè che una Chiesa cresce se cresce nella comunione, riesce a generare, educare e accompagnare nuovi cristiani se diventa essa stessa una unità viva che cammina insieme, ha come stile la fraternità e come impegno la missione, come ho sottolineato nelle lettere che hanno scandito i passi di recezione del percorso annuale. Dovrebbe apparire chiaro che una comunità non diventa più unita se si ripiega su se stessa, magari allo scopo di curare di più la spiritualità, ma se sa coniugare vita spirituale e concorde dedizione alla missione pastorale, a cominciare dalla iniziazione cristiana dei nuovi chiamati alla fede.

In questo orizzonte annuale, la Pentecoste ha un messaggio da consegnarci. Vediamo di coglierlo e di condividerlo, invocando lo Spirito perché ci dia di assimilarlo. In tutte le parrocchie mi pare di cogliere una nota ricorrente, che consiste in un attivismo più o meno intenso. Un termometro che misura in maniera attendibile la temperatura dell’attivismo o dell’agitazione è la celebrazione liturgica. Il caso più ricorrente consiste nell’incontrare persone – e voglio dire ministri, ministranti, collaboratori e fedeli – che, pure dietro una compostezza esteriore conservata a fatica, sono soprattutto preoccupate della riuscita del compimento di tutti i riti e i gesti previsti, mostrando una attenzione a volte spasmodica alla forma e alla esteriorità del rito piuttosto che al suo contenuto e al suo significato. Di che cosa è segno tutto questo? Senza dubbio è segno dell’intenzione di fare bene. Ma oltre questa intenzione, si coglie la difficoltà di andare in profondità, di penetrare la scorza del rito e di giungere alla dimensione della realtà di ciò che viene compiuto per viverlo con vero senso spirituale.

La ragione ultima che riesco a intravedere su tale questione è la convinzione – tante volte magari non elaborata con una adeguata consapevolezza – che l’effetto di ciò che operiamo dipende da noi, che il risultato lo possiamo e dobbiamo produrre noi. Vogliamo vedere e dimostrare agli altri che cosa sappiamo e possiamo fare. Alla fine si evidenzia davvero una questione di ordine spirituale: pure senza malizia o vera e propria mancanza di fede, vogliamo mettere in mostra noi stessi, essere gratificati per quello che sappiamo fare; in fondo c’è il bisogno di affermare se stessi, di realizzare se stessi. Dio rimane sullo sfondo e, anzi, talora diventa quasi l’idolo – senza che noi vogliamo intenzionalmente una cosa del genere – di cui ci serviamo per altri scopi, senza dubbio buoni e benefici.

La Pentecoste ci costringe a mettere in evidenza il problema spirituale di fondo che attanaglia la nostra pastorale e le nostre persone di ministri, collaboratori e fedeli: il centro della nostra azione pastorale siamo noi, non lo Spirito. Ma ci ricordiamo del salmo che dice: «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori» (Sal 127,1)? Siamo preoccupati di noi stessi, non di ciò che il Signore vuole, dice, opera. Viene alla mente l’espressione evangelica che magari citiamo frequentemente: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10). Le nostre tentazioni oscillano tra l’attivismo e il quietismo: o ci vogliamo sentire i protagonisti della salvezza, oppure lasciamo a Dio l’iniziativa finendo col pensare di non potere e dovere fare nulla; insomma oscilliamo tra agitazione e fatalismo. Il Vangelo ci dice, invece, che dobbiamo fare tutto e di tutto, per quanto dipende da noi, ma con la libertà interiore, la coscienza di fede, la serenità d’animo che il protagonista è il Signore. Il difficile sta nell’accettare di fare senza riconoscimenti, premi e promozioni, ma solo per amore di Dio e della sua gloria. E qui sta il difficile.

Dobbiamo chiedere al Signore e cercare di acquistare l’attitudine interiore di chi si affida allo Spirito e attende da Lui il senso e l’anima di ciò che fa, il frutto del bene a cui aspira e che vorrebbe vedere moltiplicarsi attorno a sé per proprio merito. Lo Spirito ci dia il dono di saper unire interesse e disinteresse: disinteresse per noi stessi, per il nostro ego, e interesse per la sua gloria e la sua grazia effusa attorno a noi. Ciò che ci sta più a cuore dovremmo saperlo invocare prima di cercare di produrlo. Se tanti cambiamenti non avvengono e tanti frutti di buone iniziative pastorali non si raccolgono, è perché non li invochiamo innanzitutto, e perché nella preghiera non ci apriamo veramente allo Spirito.

La gratuità con cui siamo venuti a questa Veglia, per nessun altro scopo se non per invocare insieme lo Spirito Santo, è già un segno promettente. Stiamo vivendo l’esperienza sorgiva della Chiesa, la sua dimensione nascente, senza altro fine se non l’apprezzamento e la gioia per il valore inestimabile di essere Chiesa, Chiesa del Risorto e Chiesa dello Spirito. Dallo Spirito del Risorto ci sentiamo edificati e in questo riscopriamo, semplicemente, tutto il senso, appagante ed entusiasmante, di esserci, come Suo corpo vivente.

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