Oggi festa per l’anniversario della Dedicazione della Cattedrale e per il Natale di Latina. Crociata: «Serve una visione del futuro della città»

Cattedrale San Marco Latina

Oggi 18 dicembre, per la diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno ricorre l’importante festa liturgica per la Dedicazione della Cattedrale, intitolata a San Marco. Alle 18, il vescovo Mariano Crociata ha presieduto la Messa. Alla celebrazione ha assistito in forma ufficiale anche il Comune di Latina, vista la coincidenza della data – 18 dicembre – che segna anche l’anniversario della fondazione della città (1932).

La celebrazione in cattedrale

La chiesa di San Marco a Latina è stata elevata a cattedrale nel 1986, quando la diocesi pontina è stata costituita nel suo attuale assetto. L’edificio fu inaugurato nel 1933, un anno dopo la città sorta a seguito della bonifica della palude pontina, e fu progettato dall’architetto Oriolo Frezzotti. La dedica all’evangelista San Marco, già patrono della città, fu per sottolineare il legame esistente tra l’Agro pontino e le Venezie, da cui proveniva la gran parte dei coloni.

 

 

 

 

 

Di seguito il testo dell’omelia pronunciata dal vescovo Mariano Crociata:

OMELIA

Anniversario della dedicazione della cattedrale
(Liturgia della domenica IV di Avvento C)

Latina, S. Marco, 18 dicembre 2021

+ Mariano Crociata

 

Anche quest’anno, la duplice ricorrenza anniversaria della dedicazione di questa cattedrale e dell’inaugurazione della città di Latina, porta all’altezza della nostra attenzione sia la comunità ecclesiale, con le numerose parrocchie che la compongono, sia la città tutta nel suo amalgama variegato dal punto di vista urbanistico, sociale, culturale e religioso. Come sempre abbiamo insistito, per noi credenti cattolici, il primo impegno è ad essere sempre più fedeli alle esigenze della vita cristiana e, inseparabilmente, a farci carico responsabilmente del bene della città nella sua interezza, perché questo fa parte della fedeltà alla fede cristiana. Solo a questo titolo ci sentiamo di dire – e anzi ne abbiamo il dovere – una parola sulla vita della città.

A nulla vale tuttavia ogni sforzo in tal senso, se non teniamo vivo in noi il desiderio di una coerenza tra fede e vita come chiamata di fondo della nostra appartenenza ecclesiale. La cattedrale è luogo per eccellenza di raduno dell’assemblea diocesana, in questo senso simbolo di una identità, di una unità e di una comunione che rimangono sempre dinanzi a noi come la meta a cui tendere con dedizione inesausta. Solo se siamo uniti nel nome del Signore – secondo la preghiera di Gesù: che siano uno – la nostra presenza e le nostre parole saranno significative, sia per testimoniare e annunciare il Vangelo, sia per contribuire alla crescita e allo sviluppo della città degli uomini, della nostra città.

Vi propongo di fermare il nostro sguardo su due immagini, per dare forma al messaggio che mi pare venga a noi da questa celebrazione. La prima immagine è quella offerta dal Vangelo della visitazione: Maria, pregna del figlio annunciato dall’angelo, si mette in viaggio per portare alla cugina insieme la gioia della sorprendente maternità e la premura verso una donna avanti negli anni che si prepara anche lei a dare alla luce. È un modello di stile di pensiero e di vita, che non finisce di segnalarsi come desiderabile oltre che ammirevole. Una donna alle prese con l’avventura della maternità che non si preoccupa di sé né si adagia in uno stato di fatuo autocompiacimento. C’è un vezzo, in tal senso, che spesso si riscontra oggi in tanti ambienti, e si può definire vuoi provincialismo vuoi narcisismo adolescenziale, quando cioè si parla solo di sé, delle cose che uno sa fare, dei risultati e dei successi dei propri familiari, parenti e amici, dei primati della propria parrocchia o della propria città. Come se tutt’intorno non esistesse niente altro e nessun altro, pieni di sé (del vuoto di sé) e ciechi alla varietà e alla ricchezza che viene dagli altri e da altrove, senza nemmeno il presentimento, o il desiderio, di apprendere qualcosa di più, di conoscere qualcosa di meglio, di vedere sviluppi sconosciuti che potrebbero essere portati anche da noi.

La visita di Maria è un invito a uscire fuori dalla prigione del proprio orizzonte mentale, affettivo, esistenziale. Chiusi in noi stessi, non misuriamo più la gravità dei nostri limiti e ingigantiamo la pochezza dei nostri pregi. Nella relazione con gli altri, generosa per apertura di mente e di cuore, cresciamo anche noi, mentre possiamo fare pure noi qualcosa di buono per gli altri. C’è bisogno di allargare gli orizzonti; e la nostra collocazione geografica e storica – ecclesiale e civile insieme –, se può essere vista come mortificata dal confronto con limitrofe grandezze metropolitane schiaccianti, per altro verso si presenta come opportunità per accedere a servizi e offerte che potrebbero solo arricchire la comunità ecclesiale e la città tutta. Solo che ci vogliono la coscienza di ciò che si è e la visione di ciò che si può e si vuole diventare. Se la prossimità a grandi centri viene utilizzata solo per perpetuare una sorta di servilismo utilitaristico verso poli di attenzione e di attrazione di gran lunga superiori, ci si condanna senza remissione alla piccolezza e alla mediocrità rispetto a una vocazione proporzionata alle proprie reali potenzialità. E questo, ripeto, sia sul piano ecclesiale che su quello civile.

Ci vuole uno scatto di sano orgoglio, che porti a valorizzare seriamente ciò che Dio ci ha dato e ciò che le circostanze oggi ci offrono e ci chiedono. C’è una riflessione da fare sulla cittadinanza tutta, che ha rivelato nella recente tornata non si saprebbe dire se più lacerazione o mancanza di consapevolezza della portata dei gesti e delle omissioni. L’esito conflittuale rende tutto complicato e difficile, ma ciò nonostante presenta una sfida che deve essere raccolta, perché dovrebbe incoraggiare il più possibile una sana convergenza verso l’interesse preminente dell’intera comunità cittadina. Pur in mezzo a una crisi che non accenna ad esaurirsi, ci sono delle opportunità che non torneranno più. Perderle sarebbe un peccato, non solo per il rammarico che inesorabilmente lascerebbe, ma anche per la grave responsabilità morale di cui graverebbe la coscienza e la memoria di chi ne porterebbe la colpa.

Solo che per valorizzare una opportunità come questa ci vogliono prospettive comuni, visione del futuro della città, dei suoi bisogni e delle sue potenzialità, ci vuole amore a questa città, non più concepita come territorio di cui occupare spazi, ma come comunità in cui tutti possano esprimere e perseguire il meglio per sé stessi e per l’intera comunità cittadina, dialogando e cooperando, cospirando – cioè facendo confluire gli spiriti – verso obiettivi comuni. C’è un metodo, a questo scopo, che può essere suggerito da quella che richiamerei come seconda immagine. Nell’inaugurazione del 1932 rientra anche il palazzo delle Poste della città, la cui collocazione si trovava tra Piazza del Popolo e quello che allora era il Cancello del Quadrato, un piccolo villaggio di lavoratori attorno al punto di incrocio tra strade e ferrovia. C’è nella scelta di questa dislocazione una sorta di invito alla comunicazione, al dialogo tra il cuore della città e il territorio, cioè i luoghi della vita e del lavoro di tutti; come pure un invito all’apertura al grande mondo. È troppo vedere un messaggio per l’oggi in questo riferimento storico? Certamente un tale messaggio è ciò di cui c’è bisogno: una nuova apertura e un nuovo respiro, un nuovo dialogo e nuova comunicazione tra tutti, nel palazzo e nella città, e tra l’uno e l’altra, di cui si sente parte viva la comunità ecclesiale. (Fine)

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