Messa del Crisma: clero e laici insieme per il bene della Chiesa

Ieri pomeriggio, mercoledì 5 aprile, nella cattedrale di San Marco a Latina, il vescovo Mariano Crociata ha presieduto la Messa del Crisma, concelebrando con i presbiteri e diaconi pontini e numerosissimi fedeli.

Nel corso della celebrazione, i presbiteri hanno rinnovato le loro promesse sacerdotali mentre il vescovo Crociata ha consacrato l’olio del Crisma e benedetto gli oli santi per i catecumeni e per gli infermi. Al termine della Messa i tre oli santi sono stati consegnati a ciascuna forania, da qui le piccole ampolle arriveranno nelle parrocchie. Quest’anno è stata la Forania di Terracina a offrire l’olio di oliva puro per il Crisma, l’olio dei catecumeni e per gli infermi. La preparazione è curata dall’Ufficio Liturgico diocesano, diretto da don Giovanni Castagnoli. In modo simbolico, una piccola quantità di olio è stata donata dai seminaristi di Anagni, che coltivano alcuni olivi nella loro struttura, e dalla Questura di Latina con l’olio proveniente dal Giardino della Memoria di Capaci. All’olio del Crisma è aggiunta una miscela di profumi vari.

Nelle foto alcuni momenti della Messa del Crisma

 

Di seguito l’omelia pronunciata dal vescovo Mariano Crociata:

OMELIA

Messa crismale

Cattedrale di S. Marco, mercoledì 5 aprile 2023

Con questa celebrazione la Chiesa vive uno dei suoi momenti più significativi: attinge infatti alla sorgente dello Spirito, innanzitutto con la Parola e l’Eucaristia, la forza rigenerante della grazia che la fa vivere nel mondo. Oggi vengono benedetti gli oli per i catecumeni e per gli infermi, e consacrato il crisma per il battesimo e la cresima, come pure per l’ordinazione dei presbiteri e dei vescovi. E poiché il sacerdozio ministeriale è il tramite necessario per la celebrazione dei sacramenti, l’attenzione ai presbiteri occupa un posto singolare, che si evidenzia nel rito attraverso la rinnovazione delle promesse sacerdotali.

In questo modo la Chiesa mostra l’intreccio fecondo e indiscutibile che lega sacerdozio battesimale e sacerdozio ministeriale. Le letture bibliche lo evidenziano efficacemente attraverso la pagina di Isaia, che Gesù riferisce a se stesso nel discorso alla sinagoga di Nazaret. Anche noi crediamo fermamente che in Gesù si invera la parola di Isaia che proclama lo Spirito del Signore su di lui, ma non solo per una chiamata dall’alto bensì pure per una risposta dal basso che Gesù dà con una obbedienza che lo conduce a compiere la sua opera di liberazione e di salvezza fino al culmine della croce. È sulla croce che lo Spirito prende definitivamente possesso dell’umanità di Gesù trasfigurandola nella risurrezione, per venire poi effuso sul popolo credente.

Riletta alla luce di questo inaudito compimento, la pagina di Isaia si illumina di una luce più calda e avvolgente, poiché le sue parole prendono una consistenza e una forza di verità che penetra la vita di tutto un popolo: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti». In Cristo, il sacerdozio non è più la prerogativa di alcuni ma la caratteristica costitutiva di un intero popolo.

Lo insegna molto bene la Lumen gentium del Vaticano II, a cominciare dal famoso passaggio del paragrafo 10: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo». È importante registrare anche le conseguenze che lo stesso concilio ne trae, quando al n. 12 dice che lo Spirito Santo «dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa». Pensiamo oggi in particolare ai ministeri laicali, istituiti e di fatto.

Oggi queste parole assumono un significato nuovo e attuale, alla luce delle circostanze che la Chiesa si trova ad attraversare. Scopriamo che questa dimensione di partecipazione e di collaborazione si impone alla nostra attenzione con un senso nuovo, non tanto di urgenza, ma di sviluppo della coscienza ecclesiale. Un segno a conferma di tale prospettiva è il cammino sinodale inaugurato da papa Francesco e avviato in Italia dalla conferenza dei vescovi con la consapevolezza crescente che non si tratta di un compito tra altri e di durata temporanea, ma della riscoperta di un tratto costitutivo della comunità dei credenti.

Tra le molte cose che dovremmo ricordare in un ambito così nuovo e delicato ne segnalo tre.

Innanzitutto, nello svolgimento di servizi a favore della comunità, dobbiamo guardarci da una mentalità tipica dei più disparati ambienti sociali, che possiamo qualificare come arrivista, carrierista, propria di chi sgomita per emergere sopra e magari contro altri, tentazione che colpisce indistintamente laici e ministri ordinati. Nella Chiesa la prospettiva da cui guardare ogni servizio da svolgere è un’altra, e cioè la risposta ad una chiamata che viene da Dio. A Lui rispondiamo innanzitutto di ciò che facciamo, ed è sua la grazia che ci consente di operare e anche l’energia necessaria per farlo. Al centro sta Lui, e nessuno di noi, perché Lui solo può dire: «io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene».

Per tenere sempre viva questa coscienza è necessaria una maturità e una formazione che non sempre si riscontrano tra gli uni e tra gli altri. Non si tratta di poter esibire diplomi o attestazioni di chissà quale notorietà, ma di coltivare la coscienza e la conoscenza della nostra fede e del senso dell’essere Chiesa e, a questo scopo, di utilizzare tutte le risorse e i mezzi che abbiamo a disposizione per coltivarci e crescere ininterrottamente; perché l’autoformazione non finisce mai. Soprattutto dobbiamo curare la nostra formazione spirituale, la qualità della nostra coscienza di fede e del nostro rapporto personale con Dio. Senza queste basi, non c’è servizio ecclesiale che abbia senso ed efficacia.

Proprio per questo vorrei aggiungere, in ultimo, l’accenno ad una visione d’insieme che non dovremmo mai perdere di vista. Una formazione integrale è quella che si dirige simultaneamente alle tre dimensioni costitutive della persona, che, a partire dal cuore, dalla mente e dalle mani, possiamo indicare come essere, sapere, saper fare. La nostra tendenza più frequente è quella volta al fare, talora perfino senza nemmeno aver imparato bene come. E invece c’è bisogno ancora di più di sapere, e soprattutto di essere: non bastano le abilità, prima ancora ci vogliono le intenzioni, e perfino di più le motivazioni. Di qui le domande: che persone siamo? Che tipo di persone vogliamo diventare? Alla fine, ciò che resta di noi stessi è proprio il nostro essere, l’impronta e lo stile di fondo delle nostre persone. E questo vale senza ombra di dubbio quando si tratta di persone di fede e di Chiesa. Lo Spirito plasma persone, non gente affaccendata e praticona; lasciamo che il nostro cuore ne sia preso e plasmato, in un cammino assiduo e fedele.

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