OMELIA
Messa del giubileo diocesano (Rm 5,5-11; Lc 4,16-21)
Basilica di san Paolo fuori le mura
(sabato 27 settembre 2025)
+ Mariano Crociata
La giornata di oggi resterà come una pietra miliare nel cammino della nostra Chiesa. Condensa infatti l’esperienza spirituale di tutto un anno giubilare e indirizza il nostro futuro sulle vie della conversione e della comunione, che abbiamo incontrato nel passaggio della Porta santa e nell’udienza con il Papa, oltre che nella professione di fede nella basilica di san Pietro.
Ora qui, nella basilica dell’altro apostolo, Paolo, che insieme a Pietro costituisce il nucleo del fondamento apostolico della Chiesa, raccogliamo i doni spirituali di questa giornata giubilare nel sacramento per eccellenza della comunione con il Signore e tra di noi, l’Eucaristia. Non possiamo passare sotto silenzio che la memoria dei due grandi apostoli è viva nella nostra diocesi, se non altro per la intitolazione di alcune parrocchie, ma soprattutto dobbiamo dare risalto al carattere paolino di tutto il territorio pontino per le tracce del passaggio di san Paolo, rinvenibili in diversi luoghi e in modo particolare lungo la via Appia e a Tres Tabernae. Questo ci richiama il dovere speciale di coltivare l’insegnamento e l’esempio dell’apostolo delle genti.
C’è un segno ancora che fra tutti merita di essere colto, e cioè la nostra presenza qui oggi. È un segno non solo per il numero, ma per la qualità della rappresentanza, fatta di preti, diaconi, religiosi, laici di tutte le parrocchie della diocesi. Credo che difficilmente sarà possibile riscontrare una convocazione così vasta e completa dell’intera comunità ecclesiale diocesana come questa.
Non serve farsene motivo di vanto o anche solo di merito, benché ciascuno di voi abbia fatto una scelta chiara e abbia mostrato una volontà tenace nel portare a realizzazione la propria partecipazione a un evento come il pellegrinaggio giubilare diocesano. Serve piuttosto coglierne il senso. E il senso abbraccia tre aspetti. Il primo dice che abbiamo risposto a un invito: un invito certo della Chiesa, ma ultimamente per iniziativa del Signore. È per Lui che siamo venuti, per Lui ci ritroviamo qui, e ne sentiamo viva gratitudine e gioia. Siamo una grande comunità scelta e amata dal Signore: è così che dobbiamo sentirci, soprattutto a partire da oggi.
C’è un secondo aspetto che dà senso all’incontro di oggi. Come mai abbiamo sentito di rispondere a questo invito? Io direi: perché dentro di noi in realtà avvertiamo un bisogno, una domanda, una attesa. In questo profondo sentire c’è senza dubbio l’opera di Dio, ma c’è anche la nostra esperienza di indigenza, di vuoto da colmare, di segreta attesa di un compimento. La vita di oggi è una lotta contro l’individualismo e la solitudine. C’è dentro di noi l’aspirazione all’appagamento autentico del bisogno di incontro, di amore, di unità, il bisogno di sentirci accolti, voluti bene e apprezzati. E questo lo cerchiamo sempre e dovunque, ma non arriva mai, o quasi mai. La storia di molti sembra inconsolabilmente disseminata delle delusioni che si sono accumulate nel corso degli anni. Ora siamo qui a riscoprire che in realtà la risposta a quel bisogno estremo ci è offerto, come dice Isaia, senza denaro e senza spesa, nell’amore che Dio ha riversato nei nostri cuori, come ci ha detto san Paolo nella lettera ai Romani. «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Ma questo non lo sappiamo da sempre? E allora perché il più delle volte non ha fatto breccia nel nostro cuore e siamo rimasti freddi come se niente fosse successo? Quando cominceremo ad aprirci a questo amore?
Ci può aiutare a farlo un terzo aspetto del senso di questo evento straordinario. Lo dico con la semplicità delle esperienze elementari della vita. Piuttosto che continuare a cercare penosamente chissà quale incontro o esperienza di essere accolti, voluti bene, apprezzati, amati, o addirittura a pretenderlo, proviamo noi a farlo per primi, se veramente crediamo all’amore che Dio ha riversato in noi. Impariamo, con l’amore che lo Spirito di Dio tiene vivo in noi, ad accogliere per primi, a volere bene, ad apprezzare e amare chi ci sta accanto, qualunque sia il suo aspetto e il modo di fare, e chi ha più bisogno.
Questo evento giubilare straordinario ci lascia un grande compito. Non pensiamo che sia difficile. Se non è stato impossibile per dodici apostoli, perché dovrebbe esserlo per noi che siamo più di quattromila? Anche noi abbiamo ricevuto lo Spirito, grazie al Messia Gesù, come ci ha ricordato il vangelo. E anche noi siamo mandati «a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore», perché ciò che stiamo vivendo oggi in modo particolare è proprio l’anno del Signore, l’anno giusto per noi e per la nostra missione.
Abbiamo dinanzi a noi tre possibilità a cui non dobbiamo sottrarci, se non vogliamo smentire e rinnegare tutto ciò che oggi abbiamo fatto e detto. La prima possibilità è quella di accrescere l’unità e la comunione tra di noi. Devono finire le invidie, le gelosie, le antipatie, le rivalità, la ricerca dell’affermazione di sé contro gli altri. Noi che ci lamentiamo di quelli che oggi nel mondo stanno facendo le guerre, dobbiamo sapere che quando nei nostri rapporti cerchiamo di prevaricare, di ingannare e sfruttare gli altri, non siamo diversi da loro e alimentiamo quelle guerre non con armi materiali ma con strumenti di morte che vengono dal cuore e portano morte nei cuori.
In secondo luogo, noi che abbiamo partecipato al pellegrinaggio, dobbiamo sentire la responsabilità nei confronti di quanti non hanno potuto partecipare e sono rimasti a casa. Dobbiamo perciò portare il frutto spirituale dovunque andremo, con la pace del cuore per il perdono ricevuto da Dio (il quale in Gesù ci ha amati fino a morire per noi mentre noi eravamo ancora suoi nemici) e con il desiderio di riconciliazione e di pace con tutti.
Infine abbiamo la possibilità di trasfondere il nostro tesoro di fede, di carità e di speranza dentro la comunità civile di cui siamo parte. Vediamo attorno a noi tante inadempienze e tanti motivi di scontento, ma non limitiamoci a criticare e a lamentarci. Proviamo a cambiare la qualità delle relazioni nella comunità civile e a contribuire con la nostra partecipazione alla costruzione del bene comune. Il dramma sapete qual è? Che non crediamo più in noi stessi, non abbiamo più fiducia nel patrimonio di fede, di principi, di valori che possediamo. E se non ci crediamo noi, chi potrà crederci? Nelle nostre città e nei nostri paesi, tutti guardano alla Chiesa, pur con le fragilità che essa ha dimostrato e dimostra ancora oggi, e si attendono da noi – perché tutti noi insieme siamo la Chiesa – un gesto, una parola di rinascita e di incoraggiamento per imparare tutti a vivere meglio, con più dignità e verità. Non rimaniamo sordi a questa attesa e a questa speranza.
