Omelia per la celebrazione del Natale delle Istituzioni (11/12/2024 – Cattedrale di San Marco)

11-12-2024

Celebrazione del Natale delle Istituzioni

Latina, cattedrale di san Marco,

mercoledì 11 dicembre 2024 – (Is 40,25-31; Mt 11,28-30)

+ Mariano Crociata

 

Abbiamo ascoltato dal Vangelo:

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi … e troverete ristoro».

E Isaia a sua volta ci ha detto:

«Anche i giovani faticano e si stancano,

gli adulti inciampano e cadono;

ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza,

mettono ali come aquile,

corrono senza affannarsi,

camminano senza stancarsi».

Non sono, queste, parole vagamente consolatorie, ma squarcio sulla nostra condizione umana e sul senso del Natale per noi.

Stanchezza, fatica, senso di oppressione fanno parte della condizione umana, la quale conosce anche gioie, soddisfazioni, traguardi raggiunti. Perché Gesù insiste sulla stanchezza e sulla fatica? Perché comunque queste non si possono cancellare e spesso prendono il sopravvento nella vita dei più.

Ognuno dovrebbe compiere una volta tanto l’utile esercizio di fare la rassegna delle proprie stanchezze e fatiche e ricostruirne le cause. Un esercizio certo difficile. Per semplificare richiamerei tre ambiti in cui maggiormente sperimentiamo queste costanti della condizione umana.

Un primo ambito è quello legato alla persona di ciascuno di noi, alla nostra storia, al nostro carattere, al nostro percorso di vita, alle occasioni incontrate e a quelle perdute, alle scelte fatte, agli errori commessi. Certo abbiamo avuto anche dei successi, delle riuscite, ma spesso anche i tratti di strada più soddisfacenti si sono a poco a poco coperti di polvere se non sono stati del tutto oscurati da episodi dolorosi, da imprevisti piccoli e grandi non saputi gestire. E poi c’è il groviglio dei pensieri, delle emozioni e dei sentimenti, delle relazioni buone e di quelle interrotte o peggio trasformatesi in guerre personali. Potremmo continuare a lungo su questa piccola fenomenologia, e constatare che con tutto ciò facciamo i conti tutti i giorni. Una cosa tipica della cultura contemporanea è il bisogno dello svago, dell’evasione e del divertimento, insomma di sospendere il più frequentemente possibile il ritmo consueto, portatore anch’esso, nell’immaginario o nel vissuto di molti, di tensione e di stress. Il tempo libero spesso è diventato per molti non meno stressante del tempo occupato nel lavoro o in altre incombenze, a cominciare da quelle della casa e della famiglia.

Un secondo ambito di stanchezza e di fatica lo vedo nella vita sociale di cui siamo parte e a cui per certi versi pensiamo soltanto di assistere senza sentirci veramente parte in causa. Per la verità molti non danno l’idea di seguire o di essere informati su quanto accade attorno, nella città, nel nostro Paese, nella nostra Europa, nel mondo intero. Quando ci si pensa, si ritiene che alla fine siano cose che non ci riguardano e che le preoccupazioni vere sono altre. Ciò che nondimeno tutti subiamo sono gli effetti che la vita del mondo di oggi riversa su di noi, che ne siamo o no consapevoli: effetti diretti e indiretti. Per chi segue un po’ l’informazione, è facile, per esempio, avere una sia pure vaga idea che le guerre che si combattono ai confini della nostra Europa hanno già prodotto cambiamenti economici significativi nel nostro sistema di vita, basti pensare al tema dell’energia. Ma anche chi non si informa regolarmente, subisce l’effetto di un clima sociale, di un umore collettivo che è di malessere, una sensazione diffusa che troppe cose non vanno, che problemi enormi pesano sulla testa di tutti. Possiamo cercare di non pensarci, ma il peso di questi pensieri occulti ci opprime e ci estenua, magari senza che ce ne rendiamo conto.

Un terzo ambito, infine, ha un aspetto molto più sottile, perché è di un livello spirituale. E riguarda le domande ultime della vita, che noi non ci poniamo mai apertamente, e quando lo facciamo o qualcuno lo fa magari pensiamo che siano stupide o che non servano a niente. Che ci stiamo a fare a questo mondo? Perché al mondo le cose vanno così male dovunque, e se c’è del bene, ha sempre una presenza così lieve, piccola, debole? A segnalarsi e imporsi è sempre il peggio. Chi prende coscienza lucidamente di queste domande, o simili, rischia di sentir salire dentro di sé un oscuro senso di disperazione.

Ecco, è su questo tipo di sfondo che bisogna ascoltare le parole di Gesù e quelle di Isaia. A qualcuno forse potrebbero apparire parole illusorie, perché anche a credervi non cambia niente. Certo, se noi cerchiamo qualcuno che ci risolva i problemi con la bacchetta magica e senza che noi muoviamo un dito, allora il discorso si chiude subito. Ma è un errore, perché non c’è nessuno in grado di risolvere tutto in una volta e senza il coinvolgimento di tutti. La storia è piena di falsi profeti e condottieri che hanno promesso il nuovo mondo e la società perfetta, ma i cui disastri sono ancora dinanzi a noi.

Il profeta Isaia indica una prima pista: «ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi». Il cambiamento decisivo per chi incontra il Signore sta nel vedere sparire la stanchezza, nel riacquistare forza e nel riuscire ad affrontare tutto con rinnovata energia e determinazione. Ho conosciuto la mamma di una ragazza morta a vent’anni di tumore che ha dato, insieme alla figlia finché era viva, e continua a dare serenità e fiducia agli altri, pur con dentro il dolore lancinante della perdita. La stanchezza e la fatica vengono soprattutto dal non avere motivazioni, ideali, una fede per cui spendere la vita tutta quanta.

E Gesù, poi, invita ad andare da lui per avere ristoro, appunto per sciogliere la stanchezza e la fatica e tornare rinfrancati, pieni di energia: «e troverete ristoro». Il cambiamento che Gesù promette non è il cambiamento della società, del mondo. Questo arriverà a tempo debito. Il cambiamento necessario e possibile per noi stanchi e oppressi è solo uno: ritrovare motivazione e forza per andare avanti non rassegnandosi mai, non scoraggiandosi mai, perché grazie a lui nessuna nostra fatica sarà inutile o risulterà sprecata o dimenticata. Nessun gesto di bene e di amore, piccolo o grande che sia, andrà mai perduto, per chi segue Gesù.

Ed è proprio su questo punto che voglio concludere, perché Gesù suggerisce anche l’atteggiamento adeguato di chi impara a come superare stanchezze e fatiche. Non una tecnica psicologica, come oggi tanti ciarlatani più o meno titolati vorrebbero ammannire a destra e a manca, ma un modo di essere. Di sé egli dice di essere «mite e umile di cuore». Ci sarebbe molto da dire su queste due qualifiche che Gesù si attribuisce. Ci limitiamo a notare che mitezza non è debolezza, remissività, cedevolezza o simili; essa è piuttosto un rapporto con gli altri e con la realtà non mosso da intenti di dominio, di prevaricazione e di sopraffazione, di strumentalizzazione o di sfruttamento, ma di rispetto pieno e senza riserve, e ancora portatore di una forza che va avanti per la propria strada resistendo a tutte le prevaricazioni senza ricambiare con la stessa moneta. E poi l’umiltà di cuore: Gesù si fida incondizionatamente di Dio Padre e a Lui riconosce ogni grandezza e potere, ogni amore, benevolenza e misericordia; con questa fede incondizionata egli misura cose e persone per ciò che veramente valgono e senza bisogno di sentirsi migliore o superiore, ma sapendo riconoscere e misurare se stesso per ciò che egli veramente è.

Credo che fare il Natale con questi due atteggiamenti, mitezza e umiltà di cuore, sia il modo migliore per rinfrancarsi e ritrovare la gioia e il senso della nostra vita. È il mio augurio a tutti voi.

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